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Spagna (con Podemos) e Grecia (con Syriza) contro l’austerità. E se ne esistesse una buona?

Podemos en España. ¿Pero, que puede hacer la Grecia?

Entrambi i paesi hanno visto l’affermazione dei partiti euroscettici di estrema sinistra: Podemos alle elezioni amministrative di maggio in Spagna e Syriza alle elezioni politiche di gennaio 2015 in Grecia.

I discorsi anti-austerità del leader di Podemos Pablo Iglesias di oggi ricordano quelli del premier ellenico Alexis Tsipras prima di scontrarsi con mesi di inconcludenti trattative col Gruppo di Bruxelles (l’ex troika). Il ministro delle Finanze greco Yanis Varoufakis scrive che il governo greco “non può e non vuole accettare una cura (l’austerità, ndr) che in 5 anni si è dimostrata essere peggiore della malattia”, che “impedirebbe la ripresa, frenerebbe la crescita, peggiorerebbe il circolo vizioso debito-deflazione e in fin dei conti, eroderebbe la volontà e la capacità della Grecia di attuare le riforme di cui il paese ha bisogno”[1].

Ma l’austerità può anche essere “buona” per la crescita: dipende da come è attuata. Lo dicono gli economisti Alesina, Barbiero, Favero, Giavazzi e Paradisi. Facciamo allora il punto sull’austerità: cos’è, come è stata dopo il 2008, come potrebbe essere.

Cos’è l’austerità

Con buona pace di Tsipras e Varoufakis, il termine austerità è di origine greca: austeros (λιτός) significa “duro, aspro”. Ha assunto poi un’accezione economica solo nel secondo dopoguerra, ricalcando l’austerity attuata in Gran Bretagna per diminuire e razionalizzare la spesa pubblica tra il 1945 e il 1951.

Secondo l’enciclopedia Treccani, l’austerità è quel “regime economico-politico di risparmio nelle spese statali e di limitazione dei consumi privati, imposto dal governo al fine di superare una crisi economica”. Ma, come fa giustamente notare l’Economist, per parlare di austerità ci vuole una riduzione del deficit strutturale del governo, ossia delle uscite pubbliche non coperte dalle entrate, corrette per le variazioni dovute alla congiuntura economica.

Una ricerca del 2010 degli economisti Rogoff e Reinhart[2]  – poi rivelatasi piena di errori di calcolo – concludeva che un debito pubblico sopra il 90% del PIL penalizza la crescita. Da allora, l’austerità è stata vista in Europa come il principale antidoto alla crisi finanziaria del 2008. Ha funzionato?

Grande Recessione e politiche di austerità

Nel grafico, tratto dal summenzionato editoriale del ministro greco Varoufakis, vediamo gli effetti dell’austerità (la riduzione dei deficit strutturali, sull’asse orizzontale) sulla crescita del PIL nominale nel 2009-2014 (asse verticale).

Effetti dell’austerità sul PIL nominale nel 2009-2014 nei principali Paesi europei

austerità grafico

Fonte: Yanis Varoufakis, “Austerity Is the Only Deal-Breaker”, Project Syndicate, 25 maggio 2015

I paesi che stanno peggio sono quelli nel terzo quadrante (in basso, a destra: Spagna, Cipro, Portogallo e Grecia), in quanto hanno visto ridursi sia il PIL, sia il deficit strutturale. Va un pochino meglio per quelli con PIL leggermente positivo (Slovenia, Italia, Olanda e Irlanda). Non sono state prese misure di austerità per i paesi situati nel primo quadrante (in alto, a sinistra): Lussemburgo, Finlandia, Estonia.

Balza subito all’occhio che la Grecia ha subìto più degli altri paesi una riduzione sia del PIL nominale, sia del deficit strutturale. Secondo l’economista Joseph Stiglitz, dal 2010 (anno in cui Atene è stata salvata per la prima volta dall’Europa, che in cambio le ha  imposto delle politiche di austerità), il Pil è arretrato del 25% in 5 anni, contro un’ottimistica previsione europea del 4%.

Al di là degli effetti puramente economici, uno studio di Sim Europe, Bertelsmann e SGI ha calcolato i guasti dell’austerità in termini di giustizia sociale nei diversi paesi europei, Italia compresa. Ma l’austerità può anche portare dei benefici, sotto certe condizioni.

La buona austerità

Alesina, Barbiero, Favero, Giavazzi e Paradisi hanno misurato l’effetto di politiche di riduzione del debito sulla crescita economica nel loro studio “Austerity in 2009-2013”[3]. La ricerca documenta la dimensione effettiva dei piani d’intervento fiscale in diversi paesi europei nel periodo 2009-2013, indagando gli effetti sulla crescita delle diverse politiche di austerità implementate e confronta i periodi più economicamente burrascosi con quelli di relativa tranquillità.

Lo studio rileva che nel 1978-2007, i consolidamenti fiscali basati su un aumento delle tasse dell’ordine dell’1% del PIL hanno causato una contrazione della crescita economica pari almeno al 2% nei tre anni successivi all’attuazione. Al contrario, politiche di riduzione del debito basate su tagli alla spesa pubblica non hanno prodotto effetti negativi statisticamente significativi sulla crescita economica. Gli autori hanno poi usato questi risultati per simulare gli effetti sulla crescita delle politiche fiscali adottate dai governi dopo il 2009, nel bel mezzo della crisi. Il modello elaborato dagli economisti rileva che gli aumenti delle tasse attuati nel 2010-2013 spiegano da soli la recessione italiana del biennio 2011-2012 (con un PIL annuo negativo del 2% circa).

La differenza in termini di effetti tra consolidamenti fiscali basati sulle tasse o sul taglio della spesa è netta e statisticamente significativa: gli autori dimostrano pertanto che i tagli alla spesa sono una misura più efficace per contrastare la crisi rispetto all’aumento delle tasse.

E in Italia? Da noi, i tagli alla spesa sono stati attuati in seno alla spending review (revisione della spesa), ossia un procedimento per  migliorare la qualità della spesa pubblica, tagliando gli sprechi e aumentando l’efficienza della pubblica amministrazione.

La spending review di Renzi

Nel 2014 è iniziato il taglio dei costi della politica con l’introduzione di tetti per gli stipendi dei dipendenti di Camera e Senato, che arriverà a regime nell’arco di tre anni e l’abolizione dei vitalizi per gli attuali membri del Parlamento.

L’ex commissario alla revisione della spesa Carlo Cottarelli – rientrato all’FMI il 31 ottobre 2014 e sostituito dal nuovo commissario Yoram Gutgeld e dal consigliere Roberto Perotti  –  il 22 maggio 2015 in un convegno all’Università Cattolica di Milano ha calcolato che nel 2014 il Governo Renzi ha tagliato 8 miliardi netti di spesa pubblica (altri 4 sono stati tagliati e poi utilizzati per coprire altre spese, suscitando i rimproveri dell’ex commissario).

Secondo altri detrattori, la spending review “facile” di Renzi  si attua a spese delle Province e del Sud Italia: secondo elaborazioni SVIMEZ-IRPET[4], il taglio della spesa al Sud nel 2015 sarà più del doppio che al Centro-Nord (6,2% contro 2,9%) e porterà “un effetto depressivo sull’economia del Mezzogiorno e un ampliamento dei divari regionali”.

In ogni caso, come ha ricordato Cottarelli, sul Belpaese pende ancora la spada di Damocle dei 10 miliardi da tagliare nel 2016. Altrimenti scatteranno le clausole di salvaguardia previste dal DEF 2015. Tradotto al popolo: nuove tasse.
[1] Yanis Varoufakis, “Austerity Is the Only Deal-Breaker”, Project Syndicate, 25 maggio 2015

[2] Reinhart Carmen M. e Kenneth S. Rogoff (2010), Growth in a Time of Debt, NBER Working Paper N. 15639

[3]  Alesina A. , Omar Bar­biero, Carlo Favero, Francesco Giavazzi, e Matteo Paradisi (2015), “Austerity in 2009–2013,” NBER Working Paper N. 20827

[4] http://www.svimez.info/images/COMUNICATI/2015/2015_04_07_spending_review_com.pdf

 

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