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Big data: sai come possono migliorare il mondo e il tuo business?

Capire i dati e innovare attraverso di essi ha la potenzialità di cambiare quasi tutto, in meglio

 

Questa citazione del presidente americano Barack Obama è il manifesto del “Better Decisions Forum. Deciding in the age of data revolution”, un interessantissimo seminario svoltosi a Milano il 18 giugno 2015 per approfondire il tema dei big data. Per chi li non conoscesse, si tratta di un ampissimo insieme di dati provenienti da fonti eterogenee, che si espandono in tempo reale in termini di velocità, varietà e volume.

A nostro avviso, i big data sono l’investimento del futuro, tant’è che abbiamo messo gratuitamente a vostra disposizione il portafoglio Big Data.

Big Data 

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Il Better Decisions Forum ha indagato potenzialità e limiti dei big data e delle loro visualizzazioni, di cui trovate parecchi esempi nella sezione infografiche di questo blog. La conferenza ha voluto innanzitutto definire i big data come il risultato dell’interazione di tre componenti: la vita (l’uomo, la storia e le sue decisioni), la tecnologia e le persone (relazioni, cognizioni, intuizioni, psicologia).

Grazie all’interazione di esse, i big data possono migliorare sia il mondo, sia la gestione delle imprese. Vediamo come.

Migliorare il mondo coi big data

Ha aperto la discussione Enrico Giovannini, docente di Statistica economica all’Università di Roma Tor Vergata, presidente del gruppo di consulenti dell’ONU per la data revolution e lo sviluppo sostenibile, meglio conosciuto come ex ministro del Lavoro del Governo Letta ed ex presidente dell’Istat.

Alla luce della sua attuale esperienza di consulente dell’ONU, Giovannini ha spiegato che i big data sono sia uno strumento di misurazione, sia un motore dello sviluppo sostenibile. Il professore ha tuttavia criticato l’attuale uso dei dati da parte dell’Italia, che non possiede un organismo che monitori ed effettui una rigorosa valutazione degli effetti delle nuove leggi (policy evaluation) sulla scorta di dati.

Ma la data revolution ha anche dei lati oscuri. Non tutti possono o vogliono utilizzare i big data: questo genera disuguaglianze. Inoltre, i dati possono anche essere usati contro le persone, tant’è che molti paesi non vogliono cederli ai fini di coordinamento di aiuti umanitari, poiché con i dati sarebbero diffuse anche informazioni strategiche. Infine, i dati da soli non dicono nulla, per interpretarli è necessario capirli: serve quindi una solida cultura.

Altri limiti dei big data sono legati alla nostra percezione e al nostro cervello. Li hanno trattati Paolo Ciuccarelli, fondatore e direttore scientifico del laboratorio di ricerca DensityDesign presso il Politecnico di Milano e Matteo Motterlini, docente di Filosofia della Scienza presso l’Università Vita-Salute del San Raffaele di Milano e direttore del Cresa (Centro di Ricerca di Epistemologia Sperimentale).

Ciuccarelli ha spiegato che la corretta interpretazione di una visualizzazione di dati dipende dal genere (maschile o femminile) e dallo stato d’animo: un analista o data scientist di cattivo umore leggerà male i dati. Bisogna pertanto lavorare sulla user esperience dei software per analizzare e rappresentare i dati, perché “le cose piacevoli funzionano sempre meglio”.

Motterlini ha spiegato che sebbene le persone si considerino razionali (e i modelli economici partano dallo stesso presupposto), in realtà la maggiore parte delle loro decisioni sono irrazionali, in quanto prese dal sistema automatico del nostro cervello. La buona notizia è che i limiti della nostra razionalità possono essere convertiti in punti di forza grazie all’approccio nudge (letteralmente “spinta gentile”): un intervento politico che vuole modificare il comportamento delle persone in modo prevedibile, indirizzandole verso un’opzione ritenuta migliore dal legislatore attraverso una modifica del contesto in cui si prendono le decisioni. Obama in Usa ha basato la sua campagna elettorale e implementato delle politiche pubbliche basate sul nudge. Ad esempio, per incentivare il risparmio previdenziale ha ideato il “save more tomorrow”, ossia una scala ascendente del risparmio previdenziale, adottata di default dai dipendenti delle imprese: “proprio il contrario della logica del bonus da 80 euro di Renzi”, ha polemizzato Motterlini.

I big data non sono però solo utili alla collettività, ma anche alle imprese. Lo dimostrano i casi di Uber, Amadori ed eBay.

Le potenzialità dei big data per il business

Uber. Benedetta Arese Lucini, numero uno di Uber Italia, ha raccontato che grazie all’analisi dei dati, Uber ha deciso dove aprire le sue filiali e fatto proposte sulla mobilità alle città dove opera, al punto che il comune di Boston ha deciso di prolungare l’orario notturno della metropolitana su suggerimento di Uber.

Amadori. “Il mondo è perennemente in Beta, ma il costo dell’errore è infinitamente inferiore al costo di non provarci”. Così ha aperto il suo intervento Gianluca Giovannetti, Chief Information Officer (CIO) e process director del Gruppo Amadori. Per orientarsi nel mare magnum di informazioni e di dati e aumentare l’efficienza delle imprese, servono apprendimento sul campo (learning by doing) e contaminazione tra aree aziendali e persone diverse.

eBay. “Nell’era dei social network, il costo per trattenere un cliente è inferiore a quello di acquisirne uno nuovo, perché cliente insoddisfatto poi si lamenta sui social e fa perdere altri clienti”. Davide Cervellin, responsabile Analytics Europa di eBay mette subito il dito nella piaga: i social network hanno aumentato la complessità dell’interazione col cliente.
Fortunatamente, questa complessità è misurabile grazie agli analytics. Sempre grazie ai social network, i big data sono usciti dal recinto dell’ICT per diventare un tema molto popolare prima dentro alle imprese e dal 2012 anche al di fuori. I dati sono così diventati necessari per prendere decisioni e fare previsioni a ogni funzione di business. Per evitare che questo generi caos e dispersione, serve una governance che regoli modalità di accesso, condivisione, conservazione e diffusione dei dati. Senza dimenticarsi che software e analytics non bastano: le persone sono sempre altrettanto indispensabili.

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