a
a
HomeECONOMIA E MERCATIECONOMIA, POLITICA E SOCIETA'Di cosa si nutrono i populismi? Parola al presidente del Censis

Di cosa si nutrono i populismi? Parola al presidente del Censis

I populismi che si stanno diffondendo in tutto il mondo sviluppato si alimentano di rabbia e malcontento: che cosa ha innescato la voglia di rottura dell’ordine stabilito? Ne parliamo con il presidente del Censis, Giuseppe De Rita.

L’elezione a sorpresa di Donald Trump negli Stati Uniti e la vittoria della Brexit in Gran Bretagna sono solo la punta dell’iceberg. Dall’Italia alla Francia, dalla Spagna alla Germania, l’ondata di populismo sta toccando, con intensità e sembianze diverse a seconda della situazione, gran parte del mondo sviluppato. Ma cosa c’è dietro questa voglia di rottura dell’ordine stabilito? Di cosa si alimentano le ideologie populiste? Ne abbiamo parlato con il sociologo Giuseppe De Rita, tra i fondatori del Centro Studi Investimenti Sociali (Censis), di cui è anche presidente.

Dott. De Rita, crede che ci sia una giustificazione di tipo economico alla crescente diffusione dei populismi in Europa e Oltreoceano?

Le giustificazioni economiche ci sono sempre, per qualsiasi cosa, bisogna vedere in che misura il populismo discenda da una crisi economica e quanto invece contino altri aspetti, come quello sociale, culturale e di linguaggio. Che la crisi economica abbia un impatto sullo sviluppo del populismo è facilmente riscontrabile, basti pensare a quel che è successo negli Stati Uniti: i grandi stati centrali che hanno finito per votare Trump, erano tutti incentrati sull’attività industriale: con la crisi si sono visti mancare improvvisamente il lavoro e si sono sviluppate forti tensioni, poi sfociate in una scelta di rottura. In Italia l’economia è più diversificata, è difficile pensare che vengano a crearsi situazioni simili, infatti sono convinto che in questo caso entrino in gioco altre dimensioni oltre a quella economica. Quel che è certo è che dietro all’ideologia alla Trump c’è l’impoverimento della popolazione e la conseguente sensazione di fastidio e rancore. Ma ridurre tutto all’aspetto economico mi pare riduttivo.

Parliamo allora delle altre dimensioni che entrano in gioco: cosa sta succedendo per esempio sul piano sociologico?

Stiamo osservando da un lato un aumento delle diseguaglianze sociali e dall’altro un impoverimento del ceto medio, due componenti economiche, ma anche sociali. Sul piano sociologico, il populismo può annidarsi nell’insoddisfazione di un ceto medio che pensava di continuare a crescere e ad arricchirsi, e invece vede i propri figli più poveri rispetto alla generazione precedente. Da un certo punto di vista di tratta di una dinamica fisiologica dell’ascensore sociale, che in certi periodi sale e in altri scende, ma è comunque un fattore non secondario di quel rancore, quasi di classe, che sta dietro il populismo. Inoltre, come accennavo, stiamo assistendo negli ultimi anni a un aumento delle distanze sociali, in tutto il mondo sviluppato: i ricchi diventano sempre più ricchi e le differenze con i ceti più poveri aumentano, esacerbando la rabbia e l’indignazione e alimentando la voglia di rivendicazione, tutti elementi di cui il populismo si nutre.

Come potrebbe reagire la politica tradizionale?

Di solito si dice che la politica dovrebbe tornare a occuparsi delle diseguaglianze sociali, a pensare ai poveri e ai disoccupati. Io personalmente ho l’impressione che riportare la politica a occuparsi di queste cose sia difficile, perché per farlo ci vorrebbe una cultura sottile del sistema economico che ai nostri politici di oggi manca totalmente. Oggi tutti, anche nella politica tradizionale, tendono a far leva sui sentimenti, che è poi la strada più facile: per fare un ragionamento di analisi sociale ed economica servirebbe la disponibilità strutturale di report, uffici di Stato, uffici di Confindustria e Camera di Commercio, entità insomma in grado di fornire i dati e di elaborarli. Ora invece l’Italia è stanca, si preferisce restare sul generico. E il generico è pericolosamente vicino al populismo, essendo fatto di slogan che diventano più importanti dei fatti.

Quindi secondo lei non c’è modo di fermare questa deriva?

Mah, le derive possono cambiare, può darsi anche che a un certo punto il meccanismo del populismo verrà ripensato. A ben guardare quello che noi chiamiamo populismo, ovvero un discorso politico gestito senza riferimenti culturali dietro, ma con una gran capacità di aggregare e fare un polpettone con l’opinione pubblica, nasce con Berlusconi nel ‘93 e adesso è stato rilanciato da Trump: stiamo parlando essenzialmente della tendenza ad aggregare sentimenti impauriti e rancorosi. Oggi però non c’è una struttura dietro ai movimenti populisti: sembrano tutti lupi solitari. E io ho l’impressione che nel giro di qualche anno la società – almeno quella italiana – si stuferà dei capi solitari.


Vuoi rimanere aggiornato sulle ultime notizie dei mercati?

Scritto da

La scrittura è sempre stata la sua passione. Laureata in Economia per le Arti, la Cultura e la Comunicazione all’Università Bocconi di Milano, è entrata nel mondo del giornalismo nel 2008 con uno stage in Reuters Italia e successivamente ha lavorato per l’agenzia di stampa Adnkronos e per il sito di Milano Finanza, dove ha iniziato a conoscere i meccanismi del web. All’inizio del 2011 è entrata in Blue Financial Communication, dove si è occupata dei contenuti del sito web Bluerating.com e ha scritto per il mensile Bluerating.

Nessun commento

lascia un commento

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.