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Le Big Pharma si difendono con brevetti e acquisizioni

investire nel settore farmaceutico

Sarà perché si collocano in quella insidiosa terra di confine tra il dovere dell’impresa di produrre utili per remunerare gli azionisti e il sacrosanto diritto di ognuno alla salute, fatto sta che da tempo le case farmaceutiche – le famigerate Big Pharma – sono bersaglio di critiche e polemiche più o meno fondate e di più o meno fantasiose ipotesi di complotto.

Mettiamo tutto questo da parte e trattiamole per quello che sono: imprese, appunto, con i loro costi e le loro esigenze di fare ricavi e profitti.

Il costo dei farmaci

Qui da noi la vicenda ha ricevuto ben poca attenzione, ma negli Stati Uniti fin dai tempi della campagna elettorale che ha portato alla presidenza Donald Trump tiene banco l’annosa questione dei costi dei farmaci con obbligo di prescrizione medica.

Una questione negli States è trend topic come e forse più dei dazi doganali. E man mano che si avvicinano le elezioni di metà mandato (novembre 2018) diventerà sempre più cruciale.

Come funziona la sanità USA

Il sistema sanitario statunitense si basa su una logica di tipo privatistico: Ciascun cittadino paga per ogni visita medica, ricovero ospedaliero e operazione chirurgica che deve affrontare.

E può pagare in due modi: o mettendo mano al portafogli – ma si tratta spesso di cifre molto consistenti, che possono mandare in bancarotta una famiglia – oppure stipulando per tempo una copertura assicurativa.

Quasi tutti, quindi, hanno un’assicurazione a copertura delle spese mediche. E alla maggior parte di chi ce l’ha la fornisce il datore di lavoro.

Medicaid e oltre

Dal 1965 esiste un programma, chiamato Medicaid, che aiuta i redditi più bassi ad accedere alla copertura assicurativa per le spese mediche. Nel 2010, dopo una lunga battaglia politica, l’ex presidente Barack Obama ha esteso questi sussidi.

L’attuale presidente Donald Trump ora vuole quantomeno ridurli (se non addirittura eliminarli), cosa che, oltre a lasciare scoperti milioni di americani a basso reddito, toglierebbe una fonte di introiti alle compagnie assicurative e farmaceutiche (i cui trattamenti sono coperti dalle polizze delle suddette compagnie).

Le promesse elettorali di Trump

In compenso, in campagna elettorale Trump aveva promesso di intervenire per costringere le Big Pharma ad abbassare i costi dei farmaci con obbligo di prescrizione medica.

A gennaio, nel suo discorso sullo stato dell’Unione, aveva ribadito che “correggere l’ingiustizia” degli alti prezzi dei farmaci era una delle massime priorità della sua amministrazione; poi, il 19 marzo, il segretario alla Salute Alex Azar aveva annunciato l’imminente presentazione di una lista di proposte per ridurre tali prezzi “nell’arco di un mese circa”; a fine aprile, quindi, era atteso un nuovo intervento di Trump in materia, ma c’è stato un ulteriore rinvio.

Quindi, per il momento, nulla di fatto.

Impatto sui ricavi

Fatto sta che l’eventuale riduzione dei costi dei farmaci con prescrizione obbligatoria avrebbe un impatto negativo sui fatturati delle aziende. Che, quindi, non sono restate a guardare.

Citando il Center for Responsive Politics, Bloomberg sottolinea come il Pharmaceutical Research and Manufacturers of America, che rappresenta oltre 30 compagnie farmaceutiche tra cui Pfizer e Merck, abbia destinato all’attività di lobby 26 milioni di dollari nel 2017, a fronte dei 20 milioni del 2016.

A questo si è affiancata un’attenta campagna di comunicazione. E poi c’è tutto il capitolo dell’M&A: come sottolinea il Financial Times parlando dell’acquisizione da parte del produttore farmaceutico giapponese Takeda di Shire, azienda con sede a Dublino, da inizio anno sono stati annunciati più di 183 miliardi di dollari di accordi in ambito farmaceutico, superando il totale del 2017 pari a 103 miliardi di dollari.

Fusioni e acquisizioni

D’altro canto, come evidenzia il sito Finimize.com, le società potrebbero fare leva sulle acquisizioni proprio per mantenere i prezzi a un livello per loro soddisfacente in futuro. “La serie di acquisizioni nel settore sanitario negli ultimi anni ha visto l’industria farmaceutica inglobare aziende biotech focalizzate su trattamenti di nicchia o su modi innovativi per curare disturbi comuni”, scrive Finimize.com.

Questo perché i proprietari di trattamenti più rari possono caricare prezzi più elevati, data appunto la scarsità dell’offerta (almeno per la durata dei loro brevetti), mentre altri farmaci devono “sudare” per giustificare i loro prezzi.

Il caso Johnson & Johnson

Sempre Finimize.com cita l’esempio di Johnson & Johnson, colosso sanitario proprietario di marchi come Neutrogena e Listerine, che ha chiuso il primo trimestre 2018 con 20 miliardi di dollari di ricavi, oltre le stime e in aumento del 12,6% rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso, e utili per 4,37 miliardi.

Gli investitori erano preoccupati di riscontrare un rallentamento dato che il Remicade, il farmaco per l’artrite più venduto, ha dovuto affrontare la concorrenza di concorrenti più economici. Ma una crescita vertiginosa delle vendite in aree come il trattamento del cancro ha più che compensato il calo.

Johnson & Johnson ha poi annunciato piani per reinvestire i proventi della riforma fiscale USA in ricerca e sviluppo e in spese in conto capitale, per esempio in immobili e attrezzature, per una cifra di 30 miliardi di dollari nell’arco dei prossimi quattro anni. L’azienda vuole usare questo “tesoretto” per migliorare i presidi di assistenza sanitaria e produrre nuove tecnologie negli Stati Uniti.

I titoli in Borsa

Le recenti trimestrali confermano il protrarsi del positivo momento dell’azionario statunitense e (di riflesso) del settore farmaceutico: circa l’80% delle società ha ottenuto risultati migliori delle attese, con utili segnalati in crescita del 14,7% in questi primi mesi del 2018. Tuttavia, le citate tensioni tra Trump e il comparto stanno contribuendo a frenare il ritmo di crescita dei relativi indici.

Basti pensare che dall’insediamento alla Casa Bianca, avvenuto nel gennaio 2017, al maggio 2018 l’S&P 500 (l’indice azionario delle 500 aziende statunitensi a maggiore capitalizzazione) ha visto il suo valore crescere del +18,4%, mentre l’S&P Pharmaceuticals è sotto dell’1,4% rispetto ai livelli di inizio 2017.

Dall’inizio di quest’anno a maggio, con tutta la correzione di febbraio nel mezzo, l’S&P 500 ha limitato il suo calo al -1% circa, a fronte del -11,4% dell’indice farmaceutico. Un po’ nel mezzo si colloca il Nasdaq Biotechnology Index, che racchiude i titoli di società quotate sul Nasdaq afferenti al comparto biotecnologico o farmaceutico: +14,5% da inizio 2017, -7,2% da gennaio 2018.

Tra momentum e megatrend

Questa fase di debolezza è ben catturata anche dal momentum, che viaggia in negativo, e dalle valutazioni, che risultano un po’ care, con il P/E a quota 25, sopra la media di lungo periodo di 21. In una fase in cui i settori ciclici godono ancora dello slancio impresso dall’economia globale, un comparto difensivo (e anticiclico) come quello legato alla salute risulta invece lievemente indebolito.

Complessivamente, comunque, il settore farmaceutico e sanitario negli ultimi anni ha ottenuto risultati assolutamente rilevanti, che lo hanno portato a imporsi come uno dei principali del mercato USA e di quello mondiale.

Risultato reso possibile anche dal megatrend demografico: la popolazione mondiale aumenta e invecchia e, collocandosi nel contesto di questo gigantesco mutamento sociale ed economico, le biotecnologie farmaceutiche rappresentano uno dei settori più interessanti per chi investe.


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Scritto da

Nata a Rieti, gli studi universitari a Roma, lavora a Milano dal 2007. Dopo un'esperienza di quattro anni in Class CNBC, canale televisivo di economia e finanza del gruppo Class Editori, si è spostata in Blue Financial Communication, casa editrice specializzata nei temi dell'asset management e della consulenza finanziaria. A dicembre 2017 si è unita al team di AdviseOnly.

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