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Se il posto fisso non esiste (quasi) più: il nuovo lavoro italiano

I giovani devono abituarsi all’idea che non avranno un posto fisso per tutta la vita. Del resto, diciamo la verità, che monotonia un posto fisso per tutta la vita!

Così l’allora premier italiano Mario Monti nel febbraio 2012 si espresse alla trasmissione TV “Matrix”, sollevando un vespaio di polemiche. Quel che è certo è che sono sempre meno le persone con il posto fisso tradizionale, a livello mondiale. Lo dice il World Employment Social Outlook 2015 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO), che svela il nuovo modello di rapporto di lavoro dominante a livello internazionale. Ecco in che misura si applica anche in Italia.

Un nuovo rapporto di lavoro

Il modello di lavoro standard prevede:

  • un rapporto di lavoro subordinato;
  • a tempo indeterminato;
  • a tempo pieno.

Un tipo di lavoro che sta calando progressivamente in molte economie avanzate, dove costituisce ormai meno della metà degli occupati totali a livello mondiale. Esaminiamo meglio orari e tipologia di contratto di lavoro.

Per quanto riguarda l’orario di lavoro, meno del 40% ha un lavoro full-time a tempo indeterminato. Lavorano part-time soprattutto le donne. A livello geografico, in Europa, i posti di lavoro part-time sono aumentati di 2,1 milioni e quelli full-time scesi di 3,3 milioni. In Italia, Giappone, Francia e Spagna l’aumento dei contratti part-time è andato di pari passo con la distruzione dei posti di lavoro full-time nel 2009-2013. Solo in Usa, Russia e Brasile i contratti full-time hanno superato quelli part-time.

Passando alla tipologia contrattuale, sono in pochi ad avere un contratto di lavoro a tempo indeterminato a livello mondiale: solo il 26,4%. La ragione è semplice: la maggior parte delle persone nei paesi sviluppati lavora in proprio o per la famiglia. Se si restringe l’analisi ai soli paesi ad alto reddito, ovviamente la percentuale schizza al 74,6% (di cui il 10,6% ha un impiego part-time).

In queste condizioni, cresce il numero dei working poor, ossia le persone che nonostante abbiano un impiego, versano in condizioni di povertà, specialmente nei Paesi in via di sviluppo.

Ma cosa accade in Italia? Confrontiamo il modello tratteggiato dall’Istat con la situazione del Belpaese.

Il nuovo lavoro in Italia

Il Rapporto annuale 2015 dell’Istat, uscito anch’esso nel maggio 2015, conferma che l’Italia segue le tendenze mondiali riportate dall’ILO. Secondo l’Istat, i lavoratori standard (dipendenti e a tempo indeterminato) sono scesi del 3,3% nel 2008-2014 (-1,4 milioni di occupati). Hanno subìto le maggiori riduzioni i “soliti noti”: donne e persone del Sud Italia.

Tipologie di contratti di lavoro in Italia nel 2009-2014

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Fonte: Rapporto annuale 2015 Istat.

Anche da noi, “l’unica forma di lavoro che continua a crescere ininterrottamente dall’inizio della crisi è il part-time”: +23,4% nel 2008-2014. I lavoratori a tempo parziali sono soprattutto donne, giovani, con un basso livello di istruzione e stranieri. Tra questi lavoratori parziali italiani, la maggior parte vorrebbe un lavoro a tempo pieno (part-time involontari): nel 2008-2014, a fronte di una riduzione del 24,8%del part time volontario (-491 mila unità), quello involontario è quasi raddoppiato (1 milione 275 mila unità in più), costituendo di fatto l’unica forma di occupazione aumentata negli anni della crisi. Rispetto ai dipendenti permanenti e agli indipendenti, i lavoratori atipici più spesso svolgono il part-time involontario, cosicché sono esposti così a due svantaggi: lavoro precario e orario ridotto.

Per quanto riguarda i working poor, in Italia le persone che lavorano a rischio povertà sono passate dal 9% al 10,7% fra il 2008 e il 2013, superando in entrambi i casi la media europea (fonte: Eurostat).

Le conseguenze di questo nuovo paradigma lavorativo nel Belpaese sono molto simili a quelle di cui parla l’ILO su scala globale.

Le conseguenze del nuovo lavoro

L’ILO certifica che il cambiamento dei rapporti di lavoro ha scatenato questi effetti a catena:

  • un allargamento della forbice tra salari e produttività;
  • a sua volta, questo divario ha portato a un calo della domanda aggregata per 3,7 trilioni di dollari;
  • un ampliamento delle disuguaglianze di reddito, poiché i lavoratori in nero, part-time o peggio ancora non retribuiti soffrono più degli altri la povertà e l’esclusione sociale.

In Italia, l’andamento di salari e produttività è stato diverso: sono scesi entrambi.

Passiamo ora ad alcune componenti della domanda aggregata: consumi, investimenti ed esportazioni. Secondo il rapporto Noi Italia 2015 dell’Istat, la crisi ha portato a un tracollo della quota di investimenti rispetto al Pil, scesi fra il 2008 e il 2013 dello 15%, mentre i consumi sono rimasti stazionari, attorno all’80% del Pil. Anche la quota di esportazioni italiane su quelle mondiali si è progressivamente ridotta, passando dal 3,9% del 2004 al 2,8% del 2013.

Malgrado “il cambio di alcuni addendi”, il risultato non è cambiato: anche in Italia le disuguaglianze sono aumentate, così come la povertà. Insomma, dopo la globalizzazione del commercio, sarà il caso di prepararci a quella dei rapporti di lavoro.

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