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La Cina nel 2016 potrebbe diventare economia di mercato: ecco le possibili conseguenze

Dopo il terremoto estivo (inizio luglio 2015) che ha visto un primo crollo della Borsa cinese, il nuovo anno si è aperto con il peggior avvio di sempre per i mercati azionari cinesi, con effetti a cascata sui listini di tutto il mondo.

Due le cause principali del panico che ha investito la Borsa cinese: da un lato i dati insoddisfacenti sull’andamento dell’economia; dall’altro l’attivazione (con successiva sospensione) del meccanismo noto come circuit breakers, ovvero il sistema che prevede il blocco automatico degli scambi in Borsa quando si verificano eccessivi rialzi o ribassi.

Un quadro generale

I crolli di Borsa trasmessi dalla Cina a tutto il mondo sono maturati all’interno di una decelerazione annunciata dell’economia cinese che ha cause proprie ma trova un contributo anche nel perseverare della crisi delle economie occidentali, che ha amplificato gli squilibri già esistenti nel Paese del Dragone (salari e consumi bassi) contribuendo a frenarne la crescita.

La “sindrome cinese” ha così riportato al pettine i vecchi nodi della transizione dell’economia del Paese verso un sistema con meno dirigismo e più mercato, mettendo in dubbio il successo del suo modello di sviluppo. Ma alcuni Paesi del mondo occidentale guardano con preoccupazione alla possibilità che quest’anno alla Cina venga riconosciuto lo status di economia di mercato senza che abbia completato le necessarie riforme.

Questo riconoscimento faciliterebbe infatti l’inondazione in Occidente di merci cinesi a basso costo, mettendo maggiormente in difficoltà i settori industriali più vulnerabili e aggravando ulteriormente la crisi.

Tutto è iniziato nel 2001…

Facciamo un passo indietro. La vicenda prende le mosse nel 2001, quando la Cina è diventata membro della WTO (World Trade Organization), l’Organizzazione Mondiale del Commercio.

L’Organizzazione aveva stabilito allora un periodo di 15 anni affinché la Repubblica Popolare Cinese, riconosciuta come “economia in transizione”, attuasse una serie di riforme di apertura della propria economia al modello della libera concorrenza: in base a tali regole, Pechino sostiene ora che il tempo stia per scadere (11 dicembre 2016) e che la Cina abbia diritto di acquisire automaticamente lo status di economia di mercato.

Ma non tutti sono d’accordo: alcuni Paesi – Stati Uniti in testa – si oppongono al riconoscimento “automatico” sostenendo che i criteri per misurare il rispetto dei parametri di economia di mercato stabiliti in sede WTO non sono rispettati.

Il motivo è semplice: in assenza del riconoscimento è più facile imporre dazi sui prezzi dei prodotti cinesi a basso costo per proteggere le merci dei Paesi minacciati dalla concorrenza sleale cinese.

Nell’Unione Europea (uno dei tre principali attori insieme ad USA e Cina nell’ambito della regolamentazione dei rapporti commerciali in sede WTO), il Regno Unito e la Germania sono favorevoli alla concessione, mentre l’Italia è contraria.

La Commissione europea tuttavia non si è ancora pronunciata sulla questione. Ma la sensazione è che, nonostante le pressioni da parte degli Stati Uniti a non ratificare lo status di economia di mercato, Bruxelles potrebbe concedere il riconoscimento alla Cina già entro febbraio. A quel punto saranno i 28 paesi membri dell’UE e il Parlamento europeo a dover approvare la proposta.

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Le ragioni del no

Da quando la Cina è entrata nella WTO le sofferenze di alcune economie, tra cui l’Italia, sarebbero attribuibili – secondo alcuni osservatori – anche alla concorrenza sleale cinese.

Alcuni soggetti, tra cui gli Stati Uniti, mettono in guardia i mercati europei dal rischio di vedersi inondati di merci cinesi a basso costo una volta che il Dragone avrà ottenuto lo status di economia di mercato.

Sempre secondo gli Stati Uniti, Pechino avrebbe l’onere di provare il suo status di economia di mercato e non di economia mercantilista sussidiata dallo Stato (il mercantilismo è l’atteggiamento di politica economica adottato da un Paese che tende ad arricchirsi sviluppando le proprie esportazioni e proteggendosi dalle importazioni). In particolare, nei Paesi designati come “economie di mercato” sono le singole imprese a sostenere i costi di investimento e di produzione, mentre nelle economie di transizione i costi e la formazione dei prezzi sono influenzati dai sussidi statali.

In Europa sono le imprese e le associazioni industriali come l’Aegis Europe a lanciare l’allarme. Secondo una ricerca dell’Economic Policy Institute il riconoscimento dello stato di economia di mercato alla Cina comporterebbe la perdita di  3,8 milioni di posti di lavoro ed una riduzione del PIL dell’UE del 2%.

Forti timori arrivano anche dall’industria siderurgica italiana, già caratterizzata da una sovracapacità produttiva a livello internazionale e dai settori tessile e della ceramica, particolarmente vulnerabili.

Le ragioni del sì

In Europa, sono Regno Unito e Germania i più favorevoli ad accontentare Pechino. La motivazione principale è che l’Europa beneficerà degli investimenti cinesi e di un abbattimento degli ostacoli ad investire in Cina.

La crisi della Borsa cinese inoltre, ha messo in dubbio il celebrato modello di sviluppo economico del gigante asiatico.

La strategia adottata finora – che faceva forte affidamento sulle importazioni altrui- come per esempio sta facendo la Germania – è una strategia di corto respiro, perché il Paese che esporta i suoi beni importa i problemi degli altri Paesi. In altri termini, se le cose si mettono male nei Paesi da cui dipendi, anche la tua economia avrà un ritorno negativo.

In tal senso la trasformazione in atto in Cina, ovvero il passaggio da una economia basata sulle esportazioni ad una dipendente dal consumo interno, permetterebbe di essere meno esposta a crisi esterne.

Personalmente ritengo che il riconoscimento dello stato di economia di mercato alla Cina, senza il compimento delle necessarie riforme, rischi di aggravare la crisi che stiamo vivendo.

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