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P2P Lending, cosa non ha funzionato nel modello USA

I prestiti tra privati offrono un canale di finanziamento alternativo alle banche e stanno crescendo rapidamente negli USA. Ma il modello, così com’è strutturato oggi,  rischia di non essere sostenibile nel lungo termine.

Negli ultimi anni i prestiti tra privati hanno ottenuto un grande successo, complici i tassi di interesse ai minimi e la regolamentazione sempre più stringente che ha spinto le banche a chiudere i rubinetti del credito. Stiamo parlando delle piattaforme di peer-to-peer lending che, sfruttando le potenzialità offerte dalla rete, mettono in contatto chi cerca un prestito con chi ha delle risorse da investire, eliminando così qualsiasi intermediario. Una soluzione innovativa, nata sull’onda della dilagante “sharing economy”, che è partita dal mondo anglosassone come una forma di prestito esclusivamente tra privati, ma che si è poi estesa anche alle imprese.

Grandi potenzialità

La potenzialità di queste piattaforme è notevole: l’obiettivo è quello di creare un canale di finanziamento alternativo a quello bancario in grado di offrire – proprio grazie all’assenza di intermediari da remunerare – rendimenti più alti a chi presta e costi più bassi a chi riceve. E in effetti il P2P lending ha visto una crescita impressionante, soprattutto negli USA dove la fase di sviluppo è più che avanzata: basti pensare che nel solo primo trimestre del 2016 Lending Club, leader di mercato negli Stati Uniti, ha prestato 2,75 miliardi di dollari, il 68% in più rispetto all’anno precedente.

Qualcosa non ha funzionato

Ma ultimamente qualcosa ha iniziato a scricchiolare, aprendo diversi interrogativi sulla sostenibilità di lungo termine di questo modello. La pietra dello scandalo è partita proprio da Lending Club dopo che, a metà maggio 2016, un’indagine interna alla società ha rilevato delle irregolarità nella vendita di un pacchetto di prestiti subprime per 22 milioni di dollari. In particolare, questi prestiti sono risultati non conformi ai criteri di investimento fissati dall’acquirente, che in questo caso era la banca d’affari americana Jeffries. Inoltre, il fondatore e CEO della società di prestiti peer-to-peer, Renaud Laplanche, non avrebbe dichiarato di aver investito personalmente in un fondo terzo che allo stesso tempo stava pianificando l’acquisto di prestiti su LendingClub, generando così un conflitto di interesse.

C’è da dire che Laplanche ha rassegnato immediatamente le proprie dimissioni insieme ad altri tre membri dello staff, e che la società ha subito riacquistato da Jeffries il pacchetto di prestiti contestati, assicurando di essersi già messa all’opera per rafforzare i propri meccanismi di controllo. Ma tutta la vicenda ha comunque inferto un duro colpo all’immagine di Lending Club: il titolo è crollato in Borsa dopo la notizia delle dimissioni del CEO, e tutt’ora perde il 57,1% da inizio anno; inoltre alcuni grossi investitori, come la stessa Jeffries e Goldman Sachs, hanno interrotto gli acquisti di prestiti in attesa di analizzare meglio la situazione.

Come se non bastasse, solo qualche mese prima anche il numero due del mercato USA del P2P Lending, Prosper, ha avuto qualche problema di reputazione per aver concesso un prestito a uno dei sospetti terroristi autori della strage di San Bernardino, in California.

Cosa significa tutto ciò?

Stiamo forse assistendo ai primi segnali di cedimento del modello del P2P lending? Difficile dirlo. Quel che è certo è che per proseguire nel trend di crescita vertiginosa già in atto (soprattutto negli Usa, per adesso) i player esistenti devono riuscire a mettere in contatto il numero crescente di richiedenti con i prestatori – e soprattutto devono riuscire a farlo in modo sostenibile e trasparente.

È proprio qui che si nasconde la possibile falla del sistema: se inizialmente le piattaforme di prestiti P2P mettevano in contatto gli individui che chiedevano un prestito con investitori retail disposti a prestare, con il passare del tempo e il crescere della domanda di credito si sono resi conto che questo metodo non era più sostenibile. Così hanno iniziato a rivolgersi a prestatori istituzionali, specialmente a banche disposte a re-impacchettare i portafogli di prestiti sotto forma di cartolarizzazioni.

Tanto che, secondo il data provider Altfi, lo scorso anno le piattaforme USA di P2P Lending  hanno ricevuto solo il 20% delle risorse complessive da investitori retail, mentre il 50% è arrivato da investitori istituzionali buy-and-hold e il restante 30% da cartolarizzazioni. Il problema è che – con l’aumento dei costi delle cartolarizzazioni innescato dal rialzo dei tassi USA – gli operatori hanno inziato a sentirsi tremare la terra sotto i piedi.

Come correre ai ripari?

Tanto per cominciare cercando di migliorare la fiducia nella qualità del credito, magari introducendo meccanismi di controllo più efficaci sui prestiti. Negli USA il Global Debt Registry si sta già muovendo in questo senso. Inoltre, come rileva un articolo del Financial Times, per ridurre il rischio del settore sarebbe importante virare verso una gestione più prudente dei finanziamenti e fare meno affidamento sulle cartolarizzazioni, anche a costo di rallentare un po’ il ritmo di crescita.

P2P in Italia

Intanto in Italia il settore è ancora in via di sviluppo. Ad oggi i principali operatori di P2P Lending nel Belpaese sono Prestiamoci.it – piattaforma online di prestiti tra privati gestita da Agata – e Smartika, presente sul mercato italiano dal 2012, oltre a BorsadelCredito.it, che ha esteso i prestiti peer-to-peer alle piccole e medie imprese. Di recente inoltre, ha fatto il suo ingresso in Italia anche la francese Younited Credit (ex Pret d’Union), che ha aperto una filiale a Milano ed è autorizzata da Banca d’Italia ad erogare finanziamenti ai privati.

Anche alcuni dei player italiani però hanno già incontrato qualche ostacolo sulla loro strada: Smartika nasce dalle ceneri di Zopa Italia, bloccata nel 2009 da Banca d’Italia perché la procedura – che consisteva nel far confluire i bonifici dei prestatori su un unico conto corrente – si configurava secondo via Nazionale come una forma di attività bancaria. Prestiamoci da parte sua, è stata rilanciata a fine 2013 con l’ingresso dell’incubator  Digital Magics, dopo aver sospeso temporaneamente l’attività nel 2012 per carenza di capitale.

P2P Lending all’italiana & Fisco

Ma qual è il trattamento fiscale applicato al peer-to-peer lending? A differenza degli strumenti finanziari tradizionali, che sono sottoposti ad un aliquota del 12,5% per i titoli di Stato e del 26% per la maggior parte degli altri prodotti (fondi, ETF, obbligazioni bancarie, azioni), la tassazione degli interessi nel P2P avviene al tasso dell’aliquota marginale, che risulta essere più elevata del 26% per le classi di reddito superiori ai 15.000 euro annui. Tradotto: ad oggi investire in questo tipo di piattaforme è conveniente per chi rientra in una fascia di reddito bassa. La tassazione italiana dunque non favorisce certo lo sviluppo dei prestiti regolamentati tra privati: forse anche per questo il settore è ancora agli inizi rispetto ai mercati anglosassoni.

Al netto di tutte queste considerazioni comunque, anche qui in Italia i numeri segnalano una crescita timida, ma promettente. Noi di AdviseOnly siamo dei sostenitori della sharing economy e crediamo nelle potenzialità del settore dei prestiti peer-to-peer. A patto che lo sviluppo possa avvenire in modo trasparente e sostenibile.


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Scritto da

La scrittura è sempre stata la sua passione. Laureata in Economia per le Arti, la Cultura e la Comunicazione all’Università Bocconi di Milano, è entrata nel mondo del giornalismo nel 2008 con uno stage in Reuters Italia e successivamente ha lavorato per l’agenzia di stampa Adnkronos e per il sito di Milano Finanza, dove ha iniziato a conoscere i meccanismi del web. All’inizio del 2011 è entrata in Blue Financial Communication, dove si è occupata dei contenuti del sito web Bluerating.com e ha scritto per il mensile Bluerating.

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