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Aumentano le disuguaglianze in Italia. Ecco perché

Ritorno al passato: ai primi anni Settanta, per la precisione.

Nessuna voglia di vintage. A farci tornare indietro, purtroppo, sono state le disuguaglianze, che hanno subìto un marcato aumento dal 1992 e, da allora, non sono più scese. Lo rileva il rapporto del progetto Gini sull’Italia. A proposito di disuguaglianze, ieri uno studio dell’Ocse, su dati del 2011-2012, ha rilevato che in Italia il 10% più ricco della popolazione detiene il 24,4% del reddito nazionale disponibile, mentre il 10% più povero possiede solo il 2,4% del reddito nazionale.

Dopo aver indagato le cinque disuguaglianze che affliggono gli italiani, in questa sede risponderemo a un’altra impellente questione: quali sono le cause di questa situazione?

disuguaglianze italia

1. La scuola 

Ammettetelo: questa non ve l’aspettavate. Sebbene il nostro Paese sia riuscito a raggiungere livelli d’istruzione comparabili al resto d’Europa, “non è stato capace di ridurre in modo significativo l’impatto delle origini familiari, che si manifestano nel livello d’istruzione e soprattutto nello status occupazionale raggiunto”. Questo è confermato anche dalla sostanziale corrispondenza tra il livello d’istruzione dei genitori e dei figli e dal legame tra istruzione dei padri e dei figli, più alto da noi rispetto agli altri Paesi Ue. Li vediamo entrambi nei grafici sotto.

disuguaglianze_e_scuola

2. Il divario Nord-Sud

Sul mercato del lavoro, vi sono delle marcate disuguaglianze tra il Nord e il Sud Italia. Il motivo in questo caso è molto semplice: il divario economico tra il Settentrione e il Meridione. Confcommercio ha calcolato che il Pil pro capite del Sud nel 2013 è stato pari a 17.224 euro: il 55,2% di quello del Nord-Ovest (32.102); e non è finita qui: nel 2015, il Pil del Mezzogiorno scenderà al di sotto della soglia del 55%. Noi abbiamo etichettato questa situazione come “spread tra le Regioni italiane”.

3. Il divario di genere

La situazione in questo caso è più complessa.

Da un lato, è indubbio che il mercato del lavoro italiano penalizzi le donne in termini di carriera, anche per i pregiudizi delle imprese, che si aspettano meno dalle donne. Un altro problema è l’inadeguatezza dei sistemi di conciliazione tra famiglia e lavoro. Due dati su tutti: da noi solo il 25% dei lavoratori dipendenti gode di un orario flessibile (contro una media europea del 60%) e solo il 4% gode del telelavoro (ossia lavora da casa usando il PC), contro il 30% della Scandinavia.

D’altra parte, lo Stato non offre servizi adeguati a sostegno della maternità. Due casi emblematici sono offerti dalla riforma Fornero (L. 92/2012): il voucher per “baby sitter” e il congedo di paternità obbligatorio. Il primo alla prova dei fatti è risultato inutilizzato/inutilizzabile, tant’è che è stato speso solo il 37% dei fondi; il secondo è troppo breve  – dura un giorno soltanto! – per innescare un cambio di cultura in Italia, che vede l’uomo poco presente nella cura dei figli e della casa. A ciò si aggiungono i pochi posti disponibili agli asili nido: l’Istat certifica che la quota di domanda soddisfatta è ancora molto bassa (11,8% nel 2011-2012).

Ma ci sono anche dei fattori culturali in gioco: le italiane che decidono di tornare al lavoro dopo aver dato alla luce un figlio sono poche, soprattutto al Sud, dove l’occupazione femminile è ben al di sotto della media nazionale.

Pesa infine il fattore stipendio: solitamente le donne guadagnano meno degli uomini, quindi sono incentivate a restare a casa ad accudire i figli piuttosto che a usare il loro magro salario per pagare la baby sitter o l’asilo nido.

4. Il mercato del lavoro

Alle disuguaglianze preesistenti in Italia tra uomini e donne, occupati e disoccupati, Nord e Sud, si è aggiunta anche quella tra giovani e anziani sul lavoro. Quest’ultima è il risultato dell’introduzione di una maggiore flessibilità del mercato del lavoro con le riforme Treu (1997) e Biagi (2003) per i nuovi entranti nel mondo del lavoro: i giovani. Due riforme che hanno portato con sé una maggiore diseguaglianza dei salari ai danni dei più giovani, più soggetti a lavori temporanei, instabili e malpagati.

La diseguaglianza si protrae nel futuro attraverso le pensioni: anche l’Ocse del resto ci ha avvertiti che i giovani di oggi rischiano di diventare i poveri di domani. Anche perché, a differenza dei genitori, i giovani di oggi fanno più fatica a risparmiare e ad acquistarsi una casa, salvo siano aiutati in parte o in toto dai genitori, perpetuando dunque la diseguaglianza delle condizioni di partenza.

5. Lo Stato Sociale

L’Italia, come tutti i Paesi mediterranei, ha un regime di welfare di tipo “familistico”: in caso di shock esterni (come disoccupazione, pensione anticipata e disabilità), sono le famiglie a fungere da “ammortizzatore sociale”, dando fondo ai loro risparmi. Una capacità messa sempre più a dura prova:

  • dalla crisi, che ha eroso i risparmi;
  • dall’investimento della maggior parte della ricchezza degli italiani in immobili, poco liquidi e quindi di difficile realizzo quando serve denaro nell’immediato per un imprevisto; a questo proposito, scrive Bankitalia nell’ultima Indagine sui bilanci delle famiglie italiane: “A fine 2012 […] le attività reali rappresentavano il 61,1% del totale del totale delle attività delle famiglie”;
  • dalla riduzione del numero dei componenti delle famiglie, che diminuisce la loro capacità di ridistribuire risorse.

Ma anche nei casi in cui la famiglia riesca a “sostituirsi” allo Stato, il sostegno familiare ha un costo maggiore in termini di disparità sociale rispetto a un intervento dello Stato, perché chi nasce in una famiglia con meno risorse rischia di essere costantemente penalizzato. Pertanto, la debolezza del nostro Stato Sociale contribuisce a rafforzare le disuguaglianze.

6. Le politiche fiscali

Restando in tema di mercato del lavoro, un’altra forte disuguaglianza riguarda lavoratori autonomi e dipendenti: i secondi stanno peggio dei primi.

Secondo i dati delle dichiarazioni dei redditi del 2012, i lavoratori autonomi dichiarano in media 36.070 euro e i dipendenti 20.280. In un solo anno la differenza tra i due è cresciuta a oltre 2.500 euro. Secondo gli autori dello studio nell’ambito del progetto Gini, queste disparità sono figlie di un sistema fiscale meno efficace nel prelievo fiscale sui lavoratori autonomi.

 

Chissà che il libro di Piketty sulle disuguaglianze, oltre ai dibattiti (anche) su questo blog, porti con sé anche qualche azione concreta per limare le disparità ancora presenti nel nostro Paese!

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Ultimi commenti
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    Quella dei lavoratori autonomi che stanno meglio dei dipendenti francamente mi chiedo come possa essere vera.
    Un lavoratore autonomo ha 0 ferie pagate contro i 35 giorni anno del dipendente, 0 malattia contro i giorni infiniti di malattia del dipendente. Ha un reddito che dipende in larga misura dal mercato, mentre il reddito del dipendente e’ piu’ garantito oltre a godere di cassa integrazione in caso di licenziamento.

    La mentalita’ Italiana e’ proprio cio’ che fara’ fallire sto povero paese sfigato, prima se la sono presa con gli imprenditori tutti ladri evasori come il verme nella pubblicità della RAI.
    Adesso e’ colpa degi autonomi perche’ sarebbero i nuovi ricchi. L’ha detto anche Pikety.

    Ecco bravi dopo che avrete cacciato tutte le imprese e anche i lavoratori autonomi, resteranno i dipendenti. Pero’ scusate un attimo dipendenti di chi? Ah beh li assumera’ lo stato o l’università bastera’ emettere altri BTP.

    Il default all’Italia è proprio quello che servirebbe per equita’ sociale, cosi’ dopo non vi saranno piu’ diseguaglianze: i poveri resteranno poveri e i ricchi saranno divenuti poveri pure loro!

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