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“Vi spiego come l’Italia può uscire dalla crisi”. Intervista a Giovanni Vecchi

Nel 2014 l’Italia è finita in recessione per la terza volta dallo scoppio della crisi finanziaria del 2008.

Quali sono stati i suoi effetti sugli italiani? E come uscire dal declino?

AdviseOnly l’ha chiesto al prof. Giovanni Vecchi a margine del suo intervento sull’evoluzione del benessere degli italiani al teatro Franco Parenti di Milano. L’interessante evento è stato organizzato da AcomeA Sgr, azienda presente e attiva all’interno del nostro sito. Per chi se lo fosse perso, ecco un breve video dell’intervento del professore. È possibile anche registrarsi al suo prossimo intervento, in programma per lunedì 16 febbraio 2015, sempre al teatro Parenti (ingresso gratuito).

Giovanni Vecchi è docente di storia economica, statistica e analisi del benessere all’Università di Roma Tor Vergata. È autore di numerosi studi e nel 2011 ha scritto il libro “In ricchezza e in povertà. Storia del benessere degli italiani dall’Unità a oggi”.

copertina_libro

Intervista a Giovanni Vecchi

Nel suo discorso al Teatro Parenti, ci ha mostrato come in Italia il PIL pro-capite sia diminuito per la prima volta dal secondo dopoguerra nel 2002-2013 e che, in generale, stiamo perdendo terreno rispetto al resto del mondo. L’Italia secondo lei sta sprofondando o ha toccato il fondo e si sta preparando alla risalita?

Giovanni VecchiLa dinamica del PIL pro-capite è un problema strutturale dell’Italia. È indubbio che la Grande Recessione abbia impresso un’accelerazione alla contrazione dei  redditi e delle spese degli italiani, ma è da due decenni che l’Italia non cresce. Durante  gli “anni d’oro” (1950-1973) si crebbe a velocità sostenuta – con un tasso medio del 5,5%. La generazione successiva ha invece fatto esperienza del rallentamento: fra il 1974 e il 1992 il tasso di crescita si è dimezzato (2,4%). Poi è iniziato un rallentamento pronunciato e da allora non ci siamo più ripresi.

Questa frenata è, in parte, fisiologica: è più semplice crescere partendo dalle retrovie.

 

 

Ma il quadro è più fosco se confrontiamo la dinamica del PIL italiano con quella degli altri Paesi: abbiamo perso terreno sia verso gli USA, sia verso l’Europa, sia versi i Paesi Ocse in generale. Pensate che dal 2000 al 2010 abbiamo avuto il peggior dato di crescita medio nel mondo, escludendo l’Africa sub-sahariana. Insomma, il declino dell’Italia è ampliamente documentato. Ma non credo che abbiamo toccato il fondo. Un Paese può uscire dal declino solo quando riesce a capire gli scenari che si prefigurano. Ma per capire e gestire le tensioni che il cambiamento provoca bisogna essere istruiti. È proprio questo l’anello più debole del nostro Paese, che ne impedisce la ripresa. Per questo penso che scenderemo ancora.

La crisi non ha eroso solo il PIL, ma anche il risparmio degli italiani. Come si è evoluto dall’unificazione a oggi?

Per rispondere, abbiamo dovuto fare una grande ricerca per ricostruire la serie storica del tasso di risparmio delle famiglie italiane, che vediamo nel grafico.

tasso_risparmio_famiglie_italiane_dall'Unita_al_2011Fonte: Giovanni Vecchi (2011), “In ricchezza e in povertà”. Il benessere degli italiani dall’Unità a oggi”, il Mulino

Osservandolo, emerge che anche il risparmio è stata una conquista. A fine Ottocento, non si riusciva a risparmiare più del 4-5% del reddito. Quindi siamo arrivati al 10% durante la Prima Guerra Mondiale e poi siamo diventati “campioni del risparmio” tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, quando gli italiani riuscivano a risparmiare oltre il 25% delle proprie entrate. Adesso siamo tornati al di sotto del 10%.

Il risparmio è colato a picco per varie ragioni. Innanzitutto, perché il reddito non cresce. In secondo luogo, le famiglie stanno cercando di ammortizzare le ripercussioni della crisi e difendere il loro tenore di vita. Nel 2010, solo quattro famiglie su dieci sono riuscite a risparmiare e una sua cinque si è indebitata.

Queste cifre si impennano per i giovani: il 37% non riesce a risparmiare, anche per colpa di una disoccupazione giovanile sopra al 40%. Non bisogna dimenticare che dietro l’incapacità di risparmiare c’è l’incapacità di programmare una vita e realizzare i propri obiettivi.

In generale, qual è stato l’impatto della recente crisi sul benessere degli italiani?

L’impatto è stato pesante. Certamente un fattore critico in questo momento è la mancanza di lavoro e di prospettive.

L’Istat ha calcolato che il 28% dei residenti in Italia è a rischio povertà o esclusione sociale e la percentuale di poveri è raddoppiata nel giro degli ultimi anni. Ormai i poveri costituiscono un vero e proprio esercito, che va al di là di ogni programma di welfare che si possa disegnare. Io non ho memoria di fenomeni di deterioramento così repentino. Ma neanche di un serio dibattito tra politici, media e policy maker: dopo qualche commento sui dati dell’Istat, tutto è tornato come prima. Evidentemente, la  povertà non interessa molto.

Bisognerebbe fare prevenzione: anziché contare i poveri, converrebbe stimare la vulnerabilità alla povertà, ovvero la probabilità di diventare poveri “domani”.

La crisi ha dunque colpito tutti gli italiani allo stesso modo?

No, è stata “selettiva”. I redditi e la ricchezza sono diminuiti in maniera importante, ma soprattutto quelli delle famiglie meno benestanti: basti pensare che il reddito del 10% più povero della popolazione dal 2008 al 2012 è crollato del 25%. E la disuguaglianza si è impennata.

L’aumento delle disuguaglianze è stato al centro del dibattito mondiale nel 2014 dopo la pubblicazione del libro di Piketty “Il capitale nel XXI secolo”.  Anche lei ha trattato lo stesso tema nel 2011 nel suo libro “In ricchezza e in povertà”. Cosa ne pensa del saggio del suo collega francese?

Il lavoro di Piketty ha avuto molti meriti, tra cui quello di portare all’attenzione della collettività il tema della disuguaglianza, come anche il mio libro, su una scala minore. Il dato aggiuntivo di Piketty riguarda l’ascesa del rapporto tra capitale e PIL, che sta tornando ai livelli dell’Ottocento in molti Paesi. Questo genera il timore di tornare a un passato che si riteneva ormai superato. Personalmente, non credo che questa paura sia fondata: bisogna far bene i conti, e non sempre si confermano i risultati di Piketty.

Infine, credo che ci sia una grande omissione nel suo saggio: non ha incluso nell’analisi il capitale umano, che ha un’importanza fondamentale in un’analisi storica di lungo periodo. Il capitale umano ha contribuito in maniera importante all’avvicendamento USA-UK per la leadership mondiale e, al tempo stesso, ha contribuito a evitare un aumento esponenziale delle disuguaglianze in America. Se includessimo il capitale umano nell’analisi, ci sarebbe spazio per un po’ più di ottimismo.

Personalmente, non vedo un epilogo alla Karl Marx, con la distruzione del tessuto sociale per l’aumento delle disuguaglianze. Ma dobbiamo ricordarci che ci sono delle tensioni nelle società e che c’è un livello di disuguaglianza nella distribuzione della ricchezza oltre il quale è meglio non avventurarsi. Vorrei che questo rimanesse un richiamo salutare e non un elemento di ansia in un Paese, come l’Italia, che sta facendo fatica a ripartire.

A questo proposito, cosa ne pensa dell’aumento delle disuguaglianze nel Belpaese?

In Italia è aumentata la disuguaglianza, ma non in maniera così pronunciata come nel Regno Unito e negli USA. Il fatto che da noi sia aumentata in maniera minore può voler dire che da noi il sistema di welfare è riuscito comunque ad ammortizzare.

Ritengo però grave che si siano combinati nello stesso periodo storico l’incapacità di crescere e l’aumento delle disuguaglianze. Questo dà luogo a un aumento della povertà, destinata ad aumentare ancora in futuro. Il 25-30% degli italiani non poveri oggi sono ad alto rischio povertà nei prossimi dodici mesi. Questo dimostra che l’Italia è fragile e sta riuscendo a evitare il baratro povertà attingendo ai suoi risparmi. Questa situazione non può protrarsi all’infinito e sta intaccando il ceto medio.

Una soluzione semplice al problema non esiste: bisogna riuscire ad accomodare il cambiamento richiesto a una società perché possa competere e tornare a crescere, abbracciando i valori della competizione e della tecnologia, con i costi che ad essi si associano. E la chiave di volta per questo cambiamento passa dalla scuola.

Ci vorrebbero maggiori investimenti in istruzione?

Quasi tutti sanno aumentare la quantità di istruzione: basta aumentare le iscrizioni e bocciare di meno. Il vero problema dell’Italia è la qualità del capitale umano, ovvero una popolazione che, quando è confrontata con le altre, non finisca agli ultimi posti in matematica e in problem-solving.

E invece stiamo sprofondando: abbiamo una popolazione giovane con pessimi risultati nei test Pisa-Ocse, mentre la popolazione adulta, come ha denunciato il linguista Tullio De Mauro, è afflitta da analfabetismo funzionale. Significa che legge, ma poi non sa riassumere cosa ha letto, perché non lo capisce. Considerando la fragilità economica che sta attaccando il ceto medio con l’ignoranza, io sono scettico anche sulla tenuta democratica. Lo vediamo dalle discussioni superficiali sull’uscita dall’euro. Quella della scuola è la riforma più importante da attuare, altrimenti l’Italia non troverà la strada per uscire dal declino.

Vuoi ascoltare di persona Giovanni Vecchi? Registrati all’evento organizzato da AcomeA per lunedì 16 febbraio 2015!

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Ultimi commenti
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    Quando a proposito di ricchezza si parla di “italiani” ci si riferisce ai soli cittadini italiani residenti in Italia o anche ai residenti stranieri (circa 5 milioni)? Se si considerano anche gli stranieri residenti in italia il risultato sulla ricchezza risulta falsato. Già molti italiani (in genere delle fasce alte di reddito) hanno ricchezze all’estero non dichiarate, ma se si guardano gli immigrati (in genere fasce basse di reddito) non si hanno dati sulla ricchezza posseduta all’estero. Moltissimi fra loro hanno proprietà immobiliari (case e terreni) nel paese d’origine, ma non le denunciano sul quadro RW e quindi figurano nullatenenti.

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    Quando a proposito di ricchezza si parla di “italiani” ci si riferisce ai soli cittadini italiani residenti in Italia o anche ai residenti stranieri (circa 5 milioni)? Se si considerano anche gli stranieri residenti in italia il risultato sulla ricchezza risulta falsato. Già molti italiani (in genere delle fasce alte di reddito) hanno ricchezze all’estero non dichiarate, ma se si guardano gli immigrati (in genere fasce basse di reddito) non si hanno dati sulla ricchezza posseduta all’estero. Moltissimi fra loro hanno proprietà immobiliari (case e terreni) nel paese d’origine, ma non le denunciano sul quadro RW e quindi figurano nullatenenti.

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    La ricchezza della popolazione italiana è quella dei soli residenti in Italia, compresi quelli nati all’estero. Dai un’occhiata al capitolo 2 di questa indagine di Banca d’Italia per approfondire (pp. 5-10):
    http://www.bancaditalia.it/statistiche/indcamp/bilfait/boll_stat/suppl_05_14.pdf

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    La ricchezza della popolazione italiana è quella dei soli residenti in Italia, compresi quelli nati all’estero. Dai un’occhiata al capitolo 2 di questa indagine di Banca d’Italia per approfondire (pp. 5-10):
    http://www.bancaditalia.it/statistiche/indcamp/bilfait/boll_stat/suppl_05_14.pdf

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