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Intervista esclusiva a Lucrezia Reichlin: “Ecco cosa dovrebbe fare Renzi in Europa”

Il 54% degli italiani non lo sa, ma inizia oggi il semestre europeo: i sei mesi in cui l’Italia sarà presidente di turno del Consiglio europeo.

Sono grandi le aspettative in tal senso, alimentate anche dal premier Renzi, tant’è che il 51% degli italiani pensa che nel semestre l’Italia riuscirà a influenzare positivamente l’operato dell’Ue (Fonte: sondaggio Ipsos PA per “Corriere della Sera” del 24-25 giugno 2014).

La parola d’ordine rilanciata a più riprese dal Governo è una sola: flessibilità, che Renzi spera di ottenere in cambio di riforme per la crescita, mentre il ministro delle Finanze tedesco Schäuble fa orecchie da mercante: In Europa, non ho sentito questa richiesta, né dal primo ministro italiano né da nessun altro”.

Di questo e molto altro ancora abbiamo parlato con l’economista Lucrezia Reichlin a margine della conferenza sul debito pubblico italiano del 26 giugno 2014, organizzata da AcomeA Sgr e Fondazione Corriere della Sera. Lucrezia Reichlin è docente ordinario e direttore del Dipartimento di Economia presso la London Business School, ed è stata direttore generale alla Ricerca della BCE dal 2005 al 2008.

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Inizia oggi il semestre europeo: riuscirà Renzi a cogliere quest’occasione a favore dell’Italia?

Non bisogna esagerare sulla novità del negoziato di Renzi con l’Europa. Guardando dietro le dichiarazioni amichevoli – per ovvie ragioni di pubbliche relazioni – i tedeschi hanno detto una cosa sacrosanta: il Patto di stabilità dà già la flessibilità che Renzi chiede. L’Italia l’ha già usata. Forse, però, adesso si apre una nuova strada di flessibilità in cambio di riforme, ma è ancora tutta da costruire perchè i tedeschi chiedono garanzie e un monitoraggio da parte dell’Europa che va al di là di ciò che prevede ora il Patto di stabilità. Comunque bisogna sapere che far ripartire la crescita sarà molto difficile.

In Italia, come in Europa, c’è un’insufficienza di investimento ma anche di consumo, e le due cose sono legate. Renzi ha fatto una cosa giusta: il bonus degli 80 euro nelle tasche dei cittadini. Serve una politica di stimolo dei consumi, perché è quella che funziona più rapidamente. Si parla troppo di aiuti all’investimento e ci si dimentica che non riusciamo neanche a usare i fondi europei. Per ottenere un po’ di respiro sull’allentamento fiscale si potrebbe anche percorrere la strada dei contratti bilaterali al di fuori del Patto di stabilità, che prevedono degli aiuti tra Paesi a determinate condizioni. Forse questa strada si potrà percorrere in modo multilaterale. Ancora non è chiaro cosa si stia negoziando su questo terreno.

Ci sono anche proposte più coraggiose sul piatto, ma non credo siano attuabili in un semestre europeo. Penso a forme di mutualizzazione di quella parte del debito che deriva dalla crisi (il legacy debt) e a proposte sulla disoccupazione. Su questo c’è una proposta francese molto interessante di un’assicurazione contro la disoccupazione a livello europeo: spingere delle proposte simili sarebbe un buon punto, anche in termini di popolarità per i politici.

Prima di affrontare le possibili strade per ridurre il debito, partiamo da una questione di fondo. In un famoso studio, gli economisti Rogoff e Reinhart hanno verificato che un alto rapporto tra debito pubblico e Pil finisce per abbassare quest’ultimo. Ma c’è consenso tra gli economisti su questo punto?

Questo è uno dei temi più controversi, perché naturalmente una correlazione si può sempre misurare, ma non dà informazioni sulla causalità (due fenomeni possono essere legati, ma non è detto che uno sia causato dall’altro, ndr). Io personalmente non credo alla loro correlazione. In ogni caso queste analisi non sono mai robuste: una correlazione non lo è per definizione, perchè cambia con il variare delle politiche, del ciclo e altri fattori.

Credo tuttavia che si possa qualitativamente ragionare su che cosa abbia significato per l’Italia dover avere, per così tanti anni, un surplus primario sempre intorno al 3% (la differenza tra entrate e uscite dello Stato, al netto degli interessi pagati sul debito pubblico, ndr). Se vogliamo restare nelle regole del Patto di stabilità, che prevedono una riduzione del rapporto tra debito pubblico e Pil, il surplus primario dovrà mantenersi nel caso più ottimista (miglioramento del rapporto tra le due grandezze, ndr) attorno al 3%, nel caso meno ottimista (peggioramento del rapporto tra le due grandezze, ndr), il surplus necessario all’Italia dovrà salirà intorno al 5%. Questo implica una politica fiscale molto restrittiva (tagli alle spese e/o aumenti delle tasse, ndr) in una situazione di crescita già negativa o pari a zero che, al contrario, avrebbe bisogno di un grosso stimolo fiscale per sostenere i bilanci delle famiglie e quindi anche i consumi.

Restare in Europa richiede inevitabilmente che i Paesi con alto debito lavorino per ridurlo, onde evitare un’unione basata su trasferimenti sistematici dalla parte più ricca alla più povera. Bisogna quindi “dare una botta” al debito generato dalla crisi e poi darci delle regole che prevedano la ristrutturazione nel caso in cui il debito diventi insostenibile. Regole che devono essere chiare fin da subito (ex-ante), in modo da evitare il ripetersi dei pasticci europei commessi in Grecia: prima abbiamo detto che non volevamo ristrutturare, poi l’abbiamo fatto e il risultato è stato creare costi enormi per i cittadini.

Come andrebbe attuata la ristrutturazione del debito? E come farla accettare alla Germania?

L’ammontare di debito pubblico dovrebbe essere suddiviso in due parti: da una parte quello generato dalla crisi (il legacy debt) e dall’altra quello creato nel lungo periodo, in condizioni di crescita costante del debito (steady state). Una proposta del consiglio di esperti tedeschi prevede che la parte di debito che si è creato a seguito della crisi dovrebbe essere messa in un pool europeo comune, una sorta di bad bank. Quindi tutti i paesi lavorerebbero per eliminare questa parte del debito con un fondo per redimerlo nell’arco di 25-30 anni. Sull’altra parte di debito si creerebbero delle regole per cui, una volta che si sforano i limiti, scatta un meccanismo di ristrutturazione.

Bisognerebbe anche definire un’unione monetaria con un’architettura meno fragile, che oltre all’unione bancaria, presenti anche un meccanismo di ristrutturazione e una forma di mutualizzazione del debito (la sua condivisione attraverso più soggetti, che ne diventano garanti, ndr). Se si separasse il debito in due parti, questa mutualizzazione potrebbe essere una tantum e temporanea.

Forse questa soluzione diventerà inevitabile, perché anche la Germania paga il costo della stagnazione di alcuni paesi dell’Europa tant’è vero che, sul lato macroeconomico, anche la Germania ora sta subendo un nuovo rallentamento.

Ma prima di assumerci un rischio come quello della ristrutturazione del debito, non si potrebbe rendere più efficiente il sistema pubblico?

Questo è assolutamente una priorità, su cui bisogna assolutamente spingere. Però secondo me non basta. Tuttavia parlare troppo di ristrutturazione ha come effetto negativo quello di rendere i governi troppo lassisti sulla questione del taglio delle spese.

Ammettendo di riuscire a realizzare un default controllato, non restano comunque alti i rischi che la situazione sfugga di mano, sortendo effetti devastanti sui mercati?

Certi rischi ci sono sempre ma, d’altro canto, ci sono anche delle esperienze da cui trarre delle lezioni. Prendiamo il caso dell’Argentina: se ci fossero state delle regole internazionali per evitare che il 6% dei detentori di tango bond bloccassero una risoluzione collettiva ragionevole, l’Argentina ora non sarebbe nei guai. Ci sono le regole su tutto, meno che su questo!

Quali sono le implicazioni della ristrutturazione del debito per gli italiani?

Sarebbe una tassa sulle banche, perché sono soprattutto loro e gli istituti finanziari a detenere il debito pubblico. Non è facile calcolarne l’entità, perché dipende da come i titoli di Stato sono messi a bilancio dalle banche. Inoltre implicherebbe una patrimoniale sui cittadini che detengono il debito pubblico. In assenza di una ristrutturazione del debito, i cittadini sono comunque tassati indirettamente attraverso una bassa crescita.

Cosa significa “repressione finanziaria” e soprattutto cosa implica per i risparmiatori?

“Repressione finanziaria” significa che banche e assicurazioni italiane si comprano il debito italiano a scapito dei prestiti. Questo va bene per il rischio, perché siamo meno vulnerabili da attacchi speculativi, però significa anche che gli istituti di credito hanno un incentivo a comprare il debito del proprio Paese. Ciò crea una correlazione tra rischio bancario e rischio sovrano e una segmentazione geografica del mercato finanziario europeo, rendendo molto difficile avere una politica monetaria europea comune in questa situazione. Il che significa avere dei premi al rischio più bassi e, infatti, i tassi di interesse lo sono.

La crisi è stata anche generata dal debito privato. Non sarebbe meglio affrontare anche questo problema in Ue?

Il debito pubblico e quello privato, quando ci sono le crisi, diventano indistinguibili. Per esempio la Spagna aveva un alto debito privato e un basso debito pubblico, adesso accade il contrario. Lo stesso è accaduto con gli Stati Uniti. In Italia il debito privato non è mai stato alto per cui, per ora, non è un problema pressante. Se avessimo anche questo problema, saremmo già falliti!

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Ultimi commenti
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    Lucrezia, quindi tu i BTP li compri oppure no?

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    Draghi deve cambiare la politica monetaria, in difetto siamo tutti morti, Renzi deve bussare alla porta di Draghi, deve imporgli di rispettare il Trattato, in difetto l’Italia solleverà il problema davanti alla corte di giustizia e chiede i danni a tutta l’Europa.
    Il trattato e chiaro e la Bce non lo sta rispettando.

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