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Benvenuti nell’era degli ETF

Fino a qualche anno fa sarebbe sembrato impensabile. Eppure, le masse investite nei fondi a gestione passiva – fondi indicizzati ed ETF– hanno superato per la prima volta quelle in mano ai fondi a gestione attiva negli Usa nell’estate del 2019. Con largo anticipo rispetto alle previsioni (Moody’s aveva indicato il 2024). Si tratta di un sorpasso storico, che presto potrebbe avvenire anche su scala globale, favorito dall’esplosione degli exchange traded fund, meglio noti come ETF.

E molti asset manager stanno meditando – appurato che a livello legale e regolamentare è oggi consentito – di modificare i propri prodotti a gestione attiva (che cercano cioè di generare rendimento extra scovando le migliori opportunità di investimento sui mercati) trasformandoli proprio in ETF.

 

Un hedge fund fa da apripista

La prima ad aver avviato l’iter è la statunitense Guinness Atkinson Funds, che ha già due prodotti in rampa di lancio, più un altro che inizierà la conversione a breve. Ma nell’attesa che tutti i passaggi normativi vengano completati, a fare la storia diventando a tutti gli effetti il primo fondo trasformato in ETF è un piccolo hedge fund, che ora si chiama Upholdings Compound Kings ETF.

Il fondo, con masse per 3 milioni di dollari, aveva avviato le contrattazioni – nelle precedenti vesti di fondo hedge – a marzo 2019 e ha completato la conversione in ETF (in questo caso a gestione attiva) negli ultimi giorni del 2020. La ragione del cambiamento? La società di gestione, scrive Bloomberg, voleva aumentare la base di investitori, includendo anche la fascia retail, e poter ribilanciare il portafoglio – molto esposto a titoli tech ormai estremamente cari – senza che la clientela dovesse accollarsi costi aggiuntivi.

 

L’industria cambia pelle?

Al netto del caso specifico, quello che sta accadendo è un segno dei tempi per l’industria del risparmio, con gli ETF che continuano a guadagnare terreno su fondi comuni e fondi hedge grazie a costi ridotti, maggiore trasparenza e facilità di accesso (il grafico qui sotto riguarda il mercato Usa, ma la dinamica è simile anche se osservata su scala globale).
 

 
Del resto, la “corsa” verso gli ETF – e la gestione passiva più in generale – appare abbastanza razionale se si pensa che, stando a dati Morningstar, nell’ultimo decennio solo circa un quarto dei fondi attivi sono riusciti a battere le performance dei loro “rivali” passivi. E più le commissioni di questi fondi sono elevate, più è difficile che sopravvivano e generino performance extra – e qui torna in campo il discorso dell’alfa negli investimenti.
 

Tra il dire e il fare…

Per l’industria i tempi sembrano ormai maturi, come testimonia l’accoglienza positiva di un whitepaper scritto nel 2019 dallo studio legale Ropes & Gray, in cui si conclude che ad oggi non c’è alcuna ragione legale che impedisca a un fondo comune tradizionale di trasformarsi in ETF.

 

 
Certo, una cosa è la teoria, un’altra la messa in pratica: la parte più complessa, sostiene l’avvocato Edward Baer, uno degli autori del paper, sarà “spacchettare” la struttura dei fondi comuni. Per esempio, i fondi comuni possono avere più di una classe di azioni, mentre gli ETF no. Inoltre, specialmente negli USA, molti investitori in fondi detengono i loro risparmi in piani pensionistici individuali (individual retirement account) e non hanno un conto titoli, necessario invece se si vuole investire in ETF.

Infine, c’è una questione di consenso non banale: anche se a livello legale si potrebbe procedere alla conversione da una struttura all’altra senza il voto degli azionisti, è probabile che la maggior parte di queste transazioni avverranno comunque a seguito di una votazione, il che potrebbe complicare le cose e allungare i tempi.

Sta di fatto che la strada sembra tracciata. E ad accelerare il trend potrebbe contribuire anche la recente nascita degli “ETF attivi” (come l’Upholdings Compound Kings ETF, citato poco fa): questi prodotti, ancora poco utilizzati (attualmente su Borsa Italiana se ne contano 40), replicano l’andamento di un indice e hanno costi bassi come gli ETF tradizionali, ma prevedono che il gestore stabilisca in aggiunta una strategia discrezionale per generare un rendimento extra. Una soluzione che potrebbe convincere anche i fund manager più restii alla transizione, perché consente di mantenere la gestione “taylor made” propria dei fondi attivi pur nel “contenitore” di un ETF. Ma avremo modo di riparlarne.

 

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Scritto da

La scrittura è sempre stata la sua passione. Laureata in Economia per le Arti, la Cultura e la Comunicazione all’Università Bocconi di Milano, è entrata nel mondo del giornalismo nel 2008 con uno stage in Reuters Italia e successivamente ha lavorato per l’agenzia di stampa Adnkronos e per il sito di Milano Finanza, dove ha iniziato a conoscere i meccanismi del web. All’inizio del 2011 è entrata in Blue Financial Communication, dove si è occupata dei contenuti del sito web Bluerating.com e ha scritto per il mensile Bluerating.

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