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AAA laureato cercasi. Ecco perché i giovani italiani si iscrivono meno all’università

I laureati stanno diventando merce rara in Italia.

La notizia è passata nel silenzio, complice forse il clima pre-natalizio, ma merita tutta la nostra attenzione. Lo scorso 19 dicembre l’Annuario Statistico 2013 dell’Istat ha rilevato l’ottavo calo consecutivo delle immatricolazioni all’università.

Vedere per credere, il grafico che proponiamo rappresenta il tasso di passaggio: la percentuale di diplomati delle scuole superiori nell’anno scolastico precedente che si sono iscritti all’università.

Tasso di passaggio dalle scuole superiori all’università dal 2000 al 2012

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Cerchiamo di far luce sulle cause della caduta libera delle iscrizioni all’università.

Le ragioni del tracollo

Gli esperti puntano il dito contro diversi i fattori. Passiamo in rassegna i principali.

Diminuzione del numero di giovani. In Italia è in corso da anni un progressivo invecchiamento della popolazione, favorito dall’aumento dell’aspettativa di vita e dal calo della natalità. Questo calo però non basta a giustificare quello delle immatricolazioni come ha scritto la Fondazione Giovanni Agnelli nel rapporto “I nuovi laureati. La riforma del 3+2 alla prova del mercato del lavoro”. Prendendo in considerazione la dinamica demografica dei 19enni (che costituiscono i due terzi degli iscritti all’università), le immatricolazioni avrebbero dovuto aumentare dal 2007 in poi. Ma ciò non è accaduto.

Povertà delle famiglie. Secondo Bankitalia, fra il 2004 e il 2011 la ricchezza netta delle famiglie italiane (somma di attività reali e finanziarie al netto delle passività finanziarie, come le rate del mutuo), ha oscillato fra 8.662 e 8.542 miliardi di euro1. Tuttavia l’aumento della povertà relativa dal 14% al 19% tra le famiglie con figli (quelle che hanno un consumo inferiore a quello medio pro-capite nazionale) e il lieve calo della ricchezza degli italiani dal 2004 al 2011 non possono giustificare da soli il crollo delle immatricolazioni.

Aumento delle tasse universitarie. L’XI Rapporto del Comitato Nazionale per la Valutazione del Sistema Universitario (CNVSU) certifica un aumento delle tasse universitarie in Italia: in media +11% tra il 2006 e il 2009. Attualmente il nostro Paese è terzo in Europa per tasse universitarie dopo UK e Olanda, ma nel diritto allo studio è in coda alla classifica: solo il 7% degli studenti ottiene una borsa di studio, contro il il 30% della Germania (2 miliardi), il 25,6% della Francia e il 18% della Spagna (943 milioni), come documenta una recente inchiesta del “Sole 24 Ore”. Ma non tutte le tasse vengono per nuocere: uno studio degli economisti Garibaldi, Giavazzi, Ichino e Rettore stima che un aumento delle tasse di 1.000 euro per i fuori corso riduce i tempi di laurea e la probabilità di ritardi negli studi.

La “bolla del 3+2”. L’economista Daniele Checchi da tempo attribuisce il calo delle immatricolazioni alla formula del 3+2, la riforma che ha introdotto corsi triennali al termine dei quali è possibile iscriversi al biennio di specializzazione (sono escluse le “lauree a ciclo unico”: Medicina, Veterinaria, Architettura, Farmacia, Odontoiatria, Giurisprudenza). La bolla, secondo Checchi, è dovuta al fatto che con l’introduzione del 3+2 ci sono state molte iscrizioni tardive di adulti che hanno ripreso a studiare (“laureati ibridi”) o diplomati da oltre tre anni. Come saprete, la legge della domanda e dell’offerta prescrive che l’eccessiva e improvvisa offerta di un bene porta alla sua svalutazione. Per lo stesso meccanismo, negli anni successivi alla “bolla del 3+2” avrebbe abbassato il valore della laurea.

Percezione che il “pezzo di carta” non serva più. Da anni studi dell’Istat e dell’Ocse ribadiscono che la laurea serve sia a trovare lavoro, sia a percepire uno stipendio più alto. Tuttavia, a causa della difficile transizione scuola-lavoro, i giovani impiegano sempre più tempo a raccogliere i frutti di quanto investito in fase di studio. In Italia, infatti, occorrono circa 8-9 mesi per trovare lavoro al termine delle scuole superiori o dell’università: quasi il doppio della media europea (5,1 mesi)2. Una volta trovato l’impiego, occorre ancora altro tempo prima di percepire uno stipendio (molti partono da un magro rimborso spese) e ulteriore tempo prima che la retribuzione diventi “costituzionale”, ossia “proporzionata alla quantità e qualità del lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa” (art. 36 della Costituzione italiana). Come se non bastasse, negli ultimi anni la forbice tra stipendi di laureati e diplomati nei primi anni di lavoro si sta assottigliando, come hanno rilevato gli economisti Schivardi e Torrini e l’Istituto per lo Sviluppo della Formazione professionale dei Lavoratori (ISFOL). Infine, i laureati corrono un maggior rischio di diventare precari dei diplomati, certifica ancora Checchi.

A questo punto, sorge spontaneo chiederselo: che fine fanno le (poche) matricole?

Identikit degli studenti universitari italiani

Due i sentieri che portano gli immatricolati a uscire dalle mura accademiche: la decisione di rinunciare agli studi e la discussione della tesi di laurea.

La prima è misurata dal tasso di abbandono dell’università fra il primo e il secondo anno, il periodo in cui la maggior parte degli studenti “lascia” secondo l’Istat. La seconda è catturata dal tasso di laureati (percentuale di laureati calcolata all’età tipica di laurea). Ma come e quando si laureano gli italiani? Hanno anche qualche esperienza lavorativa?

Ecco un’infografica che illustra come se la cavano gli italiani all’università.

Clicca per ingrandire

infografica: gli italiani e le università

Dall’infografica si possono trarre un paio di considerazioni.

  • Una riduzione della quantità. Sono in diminuzione sia le immatricolazioni, sia il tasso di laureati.
  • Qualità in rialzo. Lo dimostrano il calo dell’età media di laurea e della percentuale di laureati fuori corso. Lo stesso è avvenuto per gli abbandoni tra il primo e il secondo anno fino al 2009 (ultimo dato disponibile). Il voto di laurea è rimasto pressoché stabile negli anni. Peccato che altrettanto impegno non sia stato profuso anche al di fuori dell’Ateneo: sono in discesa i giovani che accedono al mondo del lavoro con una laurea in tasca ed esperienze lavorative alle spalle.

In conclusione, i laureati italiani sono senz’altro pochi. Ma buoni, almeno sotto il profilo accademico.

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Ultimi commenti
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    Perche’ dici “buoni”? seconde te un 103 di media uscendo a 26-27 anni e’ un buon risultato? tanta permanenza negli atenei dovrebbe portare a migliorare il rendimento finale, rispettoa chi corre verso la laurea e accetta qualsiasi voto.
    Mi piacerebbe comparare questi due dati con francia germania e inghilterra. Anche se i sistemi sono diversi.

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    E’ un buon risultato che calino i laureati fuori corso e che diminuiscano gli abbandoni dell’università. E non vedo grossi cali della performance accademica in termini di voto di laurea.

    Se leggi questo studio sulle preferenze dei direttori del personale in sede di colloquio, vedrai che sono molto apprezzati i laureati giovani, che sanno le lingue e che hanno esperienze di lavoro. Il voto di laurea conta, ma solo per le materie scientifiche (pp. 15-18) => http://www.fga.it/uploads/media/C._Villosio__I_nuovi_laureati_al_giudizio_dei_direttori_del_personale_-_FGAWP35.pdf

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      Laureato giovane=24/25 anni…con esperienza di lavoro (durante l’estate?) che conosce le lingue (sempre durante l’estate?). Si pretende sempre di piu’ purtroppo…
      Grazie del doc!

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    Articolo interessante, Vorrei sottolineare che i laureati sono veramente troppo pochi: in Italia nel 2011 soltanto il 15% della popolazione tra i 25 e i 64 anni ha un titolo universitario contro una media OECD del 32% e del 29% per EU21. Da notare poi e’ che, nel gruppo OECD, fa peggio dell’Italia soltanto la Turchia con un 14% (fonte OECD http://goo.gl/OEcTZG ).

    Oltre alla quantita’ poi c’e’ da considerare la qualita’ dei laureati. Piu’ che sul voto di laurea, la cui distribuzione risulta essere molto etereogenea sia tra atenei diversi che tra diverse classi delle stesso ateneo, rendendo la statistica difficilmente comparabile sia all’interno di un paese come l’Italia che a livello internazionale, io andrei a vedere cosa e come si insegna nelle universita’. Un recente rapporto OECD sulle competenze degli adulti (http://goo.gl/rwdXwa) segnala che un diplomato coreano ha in media piu’ competenze (i.e. ha totalizzato un punteggio superiore nei test standardizzati) di un laureato (medio) italiano. Sara’ solo una casualita’ poi che in Corea il 40% della popolazione 25-64 sia laureata contro il 15% dell’Italia? No, secondo me.

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    Indubbiamente in Italia ci sono meno laureati rispetto agli altri paesi Ocse => http://it.adviseonly.com/blog/politica-societa/si-torna-a-scuola-ma-come-e-messa-questa-importante-istituzione-oggi/#.UtPBNv-A2M8

    Nell’articolo ho segnalato il calo della loro quantità.

    Non alludevo a un aumento della qualità dell’insegnamento universitario, ma degli studenti in termini accademici, notando che è positivo che siano in calo quelli che lasciano gli studi e i laureati fuori corso.

    La qualità dell’insegnamento e la sua coerenza rispetto a quanto richiesto dal mondo del lavoro (mismatch) è un altro discorso.

    Tant’è che l’Italia è uno dei paesi con maggiore mismatch tra le competenze possedute e il loro utilizzo sul lavoro, generando overskilled e underskilled in misura superiore rispetto alla media Ocse => http://www.isfol.it/pubblicazioni/highlights/Isfol-Piaac%202013/contesti-di-lavoro

    I datori di lavoro sembrano esserne consapevoli, viste le loro preferenze molto eterogenee sulle università giudicate migliori (guarda la tabella a p.24 di questo rapporto della Fondazione Giovanni Agnelli) =>

    http://www.fga.it/uploads/media/C._Villosio__I_nuovi_laureati_al_giudizio_dei_direttori_del_personale_-_FGAWP35.pdf

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    Grazie per la risposta e per i link. Esatto mi riferivo proprio allo skill mismatch, che e’ il risultato di squilibri tra domanda e offerta di skills nel mercato del lavoro.

    Sul fatto che questo discorso sia diverso o scollegato da quello che fai tu, non ne sarei poi cosi’ sicuro. La scelta che l’individuo fa di investire in istruzione dipende sia da fattori personali, come passioni/attitudini, sia dal calcolo del potenziale ritorno (economico e non) delle diverse carriere possibili. Un mercato caratterizzato da forte asimmetria informativa e dove scuola e lavoro viaggiano in “universi paralleli”, costringe gli individui a fare scelte poco informate e a farsi carico di molta incertezza, spesso piu’ di quella che sarebbero disposti ad accettare. Che senso ha investire in istruzione se poi non si e’ sicuri che questo possa effetivamente dare un vantaggio in termini di salario o accesso al mercato del lavoro in futuro?

    Se poi ci aggiungi il giustissimo discorso sulla quantita’ di borse di studio che facevi tu, ci rendiamo conto che per tante persone non possono neanche porsela questa domanda, il che e’ ancora piu’ deprimente, se vogliamo.

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    Salve, finalmente trovo qualcun altro che scrive a proposito del fenomeno Università & universitari e di come tutto ciò vada ad impattare sul tessuto economico sociale del Paese. Se Le interessa, sarebbe interessante confrontarsi, in quanto anche io ho approfondito l’argomento, scrivendo un articolo a inizio anno, cercando di analizzare il fenomeno italiano e compararlo con quello americano. Qualora Le interessasse le lascio il link del mio blog: http://www.darkpool.eu e l’articolo lo trova in home page dal titolo “Eyes wide shut”. Buona giornata.

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    Ottimo pezzo Vale. Brava 🙂

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    Domanda e offerta. E’ così che funziona il mercato.
    E siccome si vede tanta gente laureata a spasso ne deduco che ci sono troppi laureati per l’offerta di lavoro. Inutile studiare economia e commercio se servono commesse. Inutile studiare ingegneria se servono operai specializzati.
    I laureati sarebbero pochi per una paese come la Germania, con un tessuto produttivo diverso dal nostro.
    Se non servono laureati, perché ci si dovrebbe iscrivere all’università?
    Per cultura personale?
    Bella la cultura ma non ti fa arrivare a fine mese e non paga le bollette a fine mese.

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    Ma parliamo più che altro della totale mancanza di skill, che l’università italiana ti da.

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