“La Cina perde il suo allure. Gli anni d’oro sono finiti”
Così scriveva l’Economist nel gennaio scorso. Il tema è caldo a livello internazionale, tant’è che qualcuno profetizza il crollo del sistema. Ma come stanno veramente le cose?
Senza alcun dubbio il rallentamento dell’economia cinese è un fatto. Una nuova conferma giunge dall’ultimo indice della produzione manifatturiera, prossimo a 50 (una volta scesa sotto questa soglia, l’economia passa dall’espansione alla contrazione).
Perché?
Il gigante cinese negli anni, a fronte di un certo andamento delle esportazioni, ha visto aumentare gli investimenti interni in maniera rilevante. La crescita è stata supportata da un forte aumento del credito che ha portato a gonfiare i prestiti dubbi e, tra l’altro, ha creato una bolla immobiliare, soprattutto nelle grandi città. Di fronte a un’economia i cui tassi di crescita cominciavano a ridursi, l’amministrazione centrale si è trovata a dover gestire una crescente bolla del credito, un’inflazione elevata e un sistema finanziario che erogava troppi prestiti.
Potrebbe sembrare che il rallentamento dell’economia cinese sia di tipo congiunturale e quindi temporaneo, tuttavia esistono diverse ragioni per cui ritenerlo abbastanza permanente.
- Governare la crescita. Non è certamente semplice, i policy makers si sono trovati di fronte all’estrema difficoltà di governare adeguatamente la crescita economica del paese.
- Cambiare il modello di sviluppo per renderlo più sostenibile nel lungo periodo. In particolare la Cina vorrebbe:
- passare da un modello di investimenti ed esportazioni a uno centrato più sui consumi interni;
- da un modello prettamente industriale a uno basato sulla crescita del settore dei servizi;
- da un modello di produzione di beni a basso prezzo a uno basato su prodotti a valore aggiunto elevato;
- da un modello di bassi salari e abbondanza di manodopera a uno (soprattutto nelle zone costiere) con poca manodopera e costi di produzione più elevati;
- abbandonare lo sviluppo costiero e puntare sugli insediamenti industriali nell’interno del paese.
- Combattere la corruzione
- Costruire uno Stato sociale sufficientemente forte. Questo obiettivo potrebbe richiedere un aumento dell’imposizione fiscale e scontrarsi pertanto con gli interessi delle classi più ricche.
In tale contesto non mancano visioni contrapposte degli scenari futuri.
Una visione pessimista
Secondo alcuni osservatori esistono delle similarità tra il blocco dello sviluppo del Giappone degli anni ’90 e quello attuale della Cina. Entrambi i Paesi hanno adottato il “modello di crescita asiatico”. Modello che basa lo sviluppo economico su elevati livelli d’investimento ed esportazioni. Le imprese industriali ricevono capitale (abbondante) e a buon mercato, le esportazioni sono favorite da un tasso di cambio basso, il risparmio incoraggiato a scapito dei consumi. Un modello siffatto tuttavia tende a generare eccesso d’investimenti, bassa domanda, bolle del credito e bolla del settore immobiliare.
In tale ambito, secondo la visione pessimista, il cambiamento (esattamente come in Giappone) è difficile che avvenga in maniera ordinata con una crescita dei consumi. Piuttosto è più facile che avvenga con un collasso degli investimenti e dello sviluppo economico. Secondo taluni osservatori è possibile che la Cina possa vivere una stagnazione economica di tipo giapponese.
Una visione ottimista
Gli ottimisti ritengono invece che la classe dirigente del paese ha saputo superare in passato difficoltà maggiori di quelle attuali. Basti pensare alle grandi trasformazioni degli ultimi 35 anni che hanno favorito l’uscita dalla povertà di milioni di persone e l’insediamento dalla campagne alle città di milioni di abitanti. Inoltre negli ultimi anni lo yuan si è rivalutato fortemente rispetto al dollaro e alle altre valute e il costo del lavoro è cresciuto, favorendo il ribilanciamento dell’economia cinese.
Le vaste disponibilità di risorse finanziarie e opportunità di sviluppo del Paese rappresentano inoltre delle possibilità di vittoria per l’economia nel suo complesso.
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