Come funziona la cosiddetta “flat-tax” (che non è affatto flat) e quali sono potenzialità ed eventuali limiti? Ne parliamo con Oscar Giannino, che individua diversi ordini di problemi legati alla nuova imposta.
È nata solo da pochi giorni, ma ha già sollevato un polverone di polemiche. Stiamo parlando di quella che l’Agenzia delle Entrate ha battezzato flat tax, ovvero il nuovo regime fiscale per incentivare i ricchi stranieri a spostare la residenza in Italia.
In estrema sintesi, si tratta di un regime agevolato, previsto nella legge di bilancio 2017, che si applica sui redditi prodotti all’estero nel caso in cui una persona, che ha risieduto fuori dall’Italia per almeno 9 degli ultimi 10 anni, decida di trasferire la residenza nel nostro Paese. A questi soggetti sarà consentito di pagare 100 mila euro di imposte l’anno (più 25 mila euro per ogni familiare) qualunque sia l’entità del reddito generato fuori dai nostri confini nazionali, per una durata massima di 15 anni (qui il comunicato pubblicato sul sito dell’Agenzia delle Entrate). Ma la flat tax ha fatto sollevare più di un sopracciglio tra i contribuenti italiani, e non solo.
Cerchiamo allora di capire meglio con l’aiuto di Oscar Giannino, editorialista economico per diverse testate e conduttore della trasmissione settimanale “I conti della belva” su Radio 24, che su questa idea della flat tax ha le idee chiare.
Giannino, cosa pensa della nuova tassa da 100mila euro per attrarre i ricchi stranieri in Italia?
La prima domanda da porsi quando pensiamo alla nuova c.d. flat tax introdotta dal Governo con l’ultima Legge di Bilancio è: di cosa stiamo parlando? La realtà è che, a differenza di come l’ha definita l’Agenzia delle Entrate, quella che abbiamo di fronte non è affatto una flat tax.
In che senso?
Una flat tax, lo dice il nome, è una modalità di prelievo che prevede un’aliquota piatta, quindi proporzionale, agli imponibili a cui si applica. Nel caso della nuova tassa invece, la proposta è quella di applicare un prelievo “secco” di 100mila euro l’anno ai redditi di qualunque entità generati all’estero da persone che hanno trasferito la residenza in Italia. Detto in altri termini, questa imposta si concretizza nel prelievo di una somma fissa, quindi non è espressione di un’aliquota e non si riferisce a un imponibile: non ha pertanto alcun senso definirla una flat tax.
Come definirla allora?
Io la definirei un’imposta capitaria, fissa nell’ammontare a prescindere dall’imponibile. Una lump sum. Assomiglia un po’ alla poll tax che 15 anni fa costò la poltrona alla premier britannica Margaret Tatcher. Certo, l’intenzione che sta dietro l’introduzione di questa nuova imposta è senz’altro lodevole: attrarre persone affluenti nel nostro Paese, con l’idea che vi spendano i loro soldi, contribuendo così al PIL italiano. I contribuenti a cui il Governo strizza l’occhio con questa misura non sono solo i ricchi russi o arabi, ma anche i manager apicali di imprese internazionali, o i dirigenti di qualche autorità europea.
Ma cosa c’è che non va nella flat tax all’italiana?
Io vedo diversi ordini di problemi nel calare questa trovata nella realtà.
In primo luogo ho qualche dubbio sulla sua effettiva attrattività per coloro che dovrebbero concretamente beneficiarne: si tratta di pagare 100 mila euro l’anno sui redditi prodotti all’estero, a cui vanno ad aggiungersi 25 mila euro per ogni familiare che vuole avvalersi della stessa opportunità. Ma se – dopo aver spostato la residenza e ottenuto il via libera delle Entrate per beneficiare dell’agevolazione – il soggetto dovesse generare reddito anche in Italia, quest’ultimo sarebbe sottoposto ai prelievi fiscali in base alla normativa nazionale. E non si tratta di imposte leggere…
Non solo. In Italia, come in tutti i Paesi OCSE, la tassazione dei redditi ottenuti a cavallo tra due diversi ordinamenti è regolata da una serie di intese e trattati tra i Paesi coinvolti, pensati proprio per disciplinare eventuali conflitti sui redditi maturati all’estero – il che implica il coinvolgimento attivo di diversi soggetti. Proprio per questo, chi volesse beneficiare della nuova normativa italiana, non potrebbe escludere una reazione da parte del Paese in cui ha generato il reddito in questione. In altre parole, va messo in conto il rischio che i Paesi di provenienza di questi soggetti considerino la legge italiana lesiva di quanto previsto dalle intese bilaterali – e che possano dunque esigere qualcosa dal contribuente. All’interno dell’Unione Europea, il quadro delle possibili reazioni degli altri Paesi arriva fino alla denuncia dell’iniziativa italiana come configurazione di improprio vantaggio a contribuenti propri che continuano a realizzare redditi nel loro territorio.
Ovviamente il problema non si pone nei paradisi fiscali, ma in ambito OCSE sì, e si ripercuoterebbe sui beneficiari. Tra l’altro, non siamo esattamente in un momento in cui si tende a chiudere un occhio: i Paesi OCSE sono tutti “ventre a terra” nella strategia di recupero dei capitali detenuti all’estero – basti pensare all’offensiva lanciata dagli USA per smantellare segreto bancario svizzero.
E questo è solo uno dei possibili problemi
Il secondo ordine di perplessità riguarda i possibili problemi di costituzionalità, che potrebbero essere sollevati nello specifico rispetto agli articoli 3 e 53 della nostra Costituzione.
L’articolo 3 disciplina l’uguaglianza: si potrebbe sostenere che la nuova legge implichi una diversità di trattamento tra i redditi realizzati all’estero da cittadini residenti in Italia, che sono sottoposti alle normali aliquote Irpef progressive, rispetto a quelli generati all’estero da persone che hanno appena riportato la residenza in Italia, che beneficerebbero invece della cosiddetta flat tax.
L’articolo 53 invece esprime il principio di progressività a cui si deve ispirare il nostro ordinamento nel suo complesso, e a cui la nuova imposta viene certamente meno.
Non sono certo di quale potrebbe essere il giudizio della Corte Costituzionale se qualcuno sollevasse queste obiezioni. In realtà la Corte Costituzionale potrebbe anche ritenere che il problema non sussista, perché in effetti, se guardiamo a come si è evoluto il nostro sistema impositivo, sappiamo che ad oggi esso non è più determinato solo dalla progressività delle aliquote IRPEF. Infatti, la tassazione sul reddito è diventata nel tempo come una casacca di Arlecchino e, nella sostanza, la progressività delle aliquote si applica ormai solo al reddito da lavoro. Gli altri redditi hanno iniziato a essere soggetti a imposte cedolari, quindi proporzionali e non progressive, a seconda del tipo di cespite, a seconda del contratto di locazione di un immobile e così via. E l’effetto distorsivo della reintroduzione delle cedolari è pazzesco.
Ma lei pensa che la Corte Costituzionale potrebbe avere da ridire?
Sì, il rischio c’è. Perché seppur sia vero le cedolari già coesistono con l’imposta progressiva, è anche vero che queste cedolari hanno due caratteristiche: intanto hanno un’aliquota definita in relazione a un imponibile, mentre la nostra c.d. flat tax non prevede né aliquota né imponibile; e poi sono proporzionali, a differenza della flat tax, che resta uguale per tutti i cespiti. Se osserviamo la nuova tassa da questo punto di vista, allora la Corte Costituzionale potrebbe rilevare effettivamente un problema rispetto agli articoli 3 e 53.
In conclusione, ritengo che l’intenzione del Governo sia sicuramente apprezzabile, ma credo che non vadano esclusi problemi a livello internazionale – con un conseguente freno per i potenziali beneficiari – e possibili problemi di costituzionalità. Senza considerare che i contribuenti italiani che hanno dovuto rimpatriare i capitali detenuti all’estero si sentono a dir poco fregati da questa nuova misura.
In che modo si potrebbe perseguire l’obiettivo del Governo senza incappare in questi possibili ostacoli?
Sarebbe necessario che la flat tax si inserisse in un processo più ampio di revisione del nostro sistema di imposizione fiscale alle persone fisiche, cosa che in questo momento mi sembra decisamente improbabile. Se una riforma introducesse un’unica o doppia aliquota di convergenza da applicare a tutti, progressiva attraverso un meccanismo di detrazioni e deduzioni, con obiettivi di parametrizzazione del gettito ottenibile per coprire costi e welfare… Ecco, se si facesse una riforma così, che potrebbe tra l’altro ridare alla politica il timone sull’imposizione sul reddito, allora le possibili obiezioni di incostituzionalità cadrebbero, perché saremmo in presenza di un intervento accidentale rispetto a un più ampio quadro di riforma organica.
Cogliamo l’occasione per ringraziare Oscar, sempre disponibile a darci la sua opinione sui temi più delicati e controversi dell’economia, soprattutto italiana.
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