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WeWork o “WeWorked”: finisce la favola delle startup?

Il fallimento dell'IPO di WeWork è un preludio di nuove difficoltà per le startup?

C’è una bolla delle startup all’orizzonte? È la domanda ci si pone dopo la dis-avventura di WeWork, la società fondata nel 2010 da Adam Neumann con l’obiettivo di ristrutturare edifici e renderli adatti a ospitare spazi per il co-working.

Arrigo Panato, autore di “Restartup. Le scelte imprenditoriali non più rimandabili” (EGEA), sul sito di Manageritalia1 scrive che le ultime startup si sono spesso rivelate un po’ effimere, “all’interno di una bolla gonfiata da consulenti, incubatori e grandi imprese in cerca più che altro di migliorare la propria reputazione sul mercato”.

Il che non vale solo per l’Italia.

 

Cosa c’è dietro il flop di WeWork?

Molte aziende hanno provato, negli ultimi anni, a imitare la spregiudicatezza di Amazon che, dopo anni di consistenti perdite, compensate da finanziamenti altrettanto consistenti, è quasi riuscita a conquistare il monopolio (quantomeno occidentale) nell’e-commerce, con guadagni che hanno toccato i 10 miliardi di dollari nel 2018.

Ma non tutte sono Amazon. Non Uber, che ha dovuto attuare importanti tagli al personale, con tanto di dimissioni del fondatore Travis Kalanick e prezzo delle azioni sceso di più del 30% dal giorno della quotazione, a maggio. Forse Netflix e Spotify2, che stanno iniziando a riportare bilanci in attivo.

 

Tech in Borsa | amCharts

 

Poi c’è WeWork: 47 miliardi di dollari la sua valutazione a gennaio, dopo l’ultima tranche di investimenti dalla giapponese SoftBank (che ci ha messo 10,5 miliardi in tutto); 10 miliardi di dollari il valore stimato dopo che i suoi conti sono stati resi pubblici in vista della quotazione, inizialmente prevista a settembre e poi rinviata a data da definirsi.

Nel 2017 WeWork ha perso circa 900 milioni di dollari. Nel 2018 le perdite sono state di 1,6 miliardi di dollari, a fronte di 1,8 miliardi di ricavi nello stesso anno: il fatturato è cresciuto, ma le spese sono lievitate molto di più.

Questa capacità di bruciare denaro la assimila alle aziende tecnologiche, delle quali però non possiede caratteristiche positive come bassi costi di crescita ed “effetto-rete” (quel meccanismo per cui il valore del prodotto aumenta all’aumentare del numero delle persone che lo utilizzano).

Peraltro, le aspettative dell’azienda sono cambiate rispetto ai primi documenti depositati per l’IPO, ad agosto: in quelli di settembre mancavano riferimenti a termini come “break-even”, “redditizio” e “flusso di cassa”, a suggerire che tali obiettivi sono più lontani del previsto.

Come non bastasse, ci sono i debiti, fra i quali un’obbligazione da 702 milioni di dollari che scade nel 2025. E ora finanziarsi è assai meno facile che in passato.

A metà settembre, proprio quando sarebbe dovuto partire il roadshow per promuovere l’IPO, il CEO Adam Neumann è stato invitato a fare un passo indietro: al suo posto ora ci sono Sebastian Gunningham e Artie Minson, co-CEO, che stanno cercando di normalizzare la gestione dopo gli anni a dir poco frenetici della conduzione Neumann.

E i finanziatori cosa dicono?

 

 

Softbank, investitore a tutto campo

Per una startup che delude, c’è almeno un finanziatore che ha preso una cantonata. In questo caso è la giapponese SoftBank, holding finanziaria guidata da Masayoshi Son.

Tre anni fa ha raccolto 100 miliardi di dollari, impiegandoli per creare il fondo d’investimento Vision (che con le sue massicce munizioni, secondo alcuni, starebbe alimentando la bolla delle startup3). Parte di questo malloppo è andata a WeWork, che potrebbe essere solo una delle scommesse destinate a non andare a buon fine.

La logica è un po’ la seguente: punto su 10 progetti che promettono bene, possibilmente stimolando il management a dare il massimo, contando che almeno 3 o 4 funzionino. E infatti, non a caso, Sofbank ha investito anche in Alibaba, piattaforma cinese di e-commerce, e Uber, piattaforma di passaggi in auto, solo per citare le più note4.

Della seconda abbiamo già detto, ma la prima non si può certo considerare una scommessa andata a vuoto: quando il fondatore Jack Ma ha lasciato ufficialmente la guida di Alibaba, a settembre, esattamente vent’anni dopo la fondazione, il valore di mercato del colosso cinese (che oggi non si occupa più solo di e-commerce) ammontava a 462 miliardi di dollari.

 

Quel nodo che si chiama valutazione

Se il valore di una società quotata in Borsa si determina dall’incontro di domanda e offerta, quello di una startup non ancora quotata dipende dalla cifra che i venture capitalist hanno sborsato per comprare le azioni in occasione della più recente campagna di racconta fondi, non importa se avvenuta un anno o un mese prima5.

Funziona così: un nuovo investitore stipula un accordo con il consiglio di amministrazione della società, che gli offre nuove azioni in cambio di liquidità per poter finanziare la sua crescita. Espandendo quel prezzo per azione a tutte le azioni, ne risulterà la cifra che l’intera azienda vale secondo il nuovo investitore.

Esempio. L’investitore acquista il 10% della società per 5 miliardi di dollari. Applicando questa valutazione al 100% della società, si avrà che secondo l’investitore essa vale 50 miliardi di dollari.

Questo è un po’ ciò che è successo a inizio anno, quando la giapponese SoftBank ha investito un miliardo di dollari in WeWork lasciando intendere che, quindi, nel complesso la valutava 47 miliardi.

Il punto debole di questo valore è evidente: esso è dedotto da ciò che l’investitore è disposto a pagare per entrare nel progetto, più alla luce delle sue prospettive che sulla base dei numeri che già sono sulla carta, in termini di fatturato, costi, utili e perdite.

D’altra parte, per il fondatore più alta è la cifra che l’investitore è disposto a pagare e meglio è, perché un gruzzolo consistente può a creare occasioni di altri affari, reputazione e credibilità.

Ne consegue, da parte nostra, il seguente suggerimento: quando una startup annuncia la quotazione, prima di investire aspettate di vedere cosa ne pensa il mercato. Se ci sono nodi, sarà a quel punto che inizieranno a venire al pettine. E, auspicabilmente, voi non ci finirete in mezzo.

 



1 – Manageritalia è la Federazione nazionale dei dirigenti, quadri e professional del commercio, trasporti, turismo, servizi, terziario avanzato.
2 – Spotify, go big or go home
3 – Here’s everything we know about how startups raise money from SoftBank’s $100 billion Vision Fund, fonte: Business Insider
4 – SoftBank, WeWork’s biggest backer, is the most powerful investor in tech right now, fonte: Business Insider
5 – WeWork and Juul show that startup “valuations” can be totally meaningless, fonte: Vox

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Nata a Rieti, gli studi universitari a Roma, lavora a Milano dal 2007. Dopo un'esperienza di quattro anni in Class CNBC, canale televisivo di economia e finanza del gruppo Class Editori, si è spostata in Blue Financial Communication, casa editrice specializzata nei temi dell'asset management e della consulenza finanziaria. A dicembre 2017 si è unita al team di AdviseOnly.

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