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Pastore: “Basta flessibilità, ecco come affrontare la disoccupazione”

Finalmente arriva qualche buona notizia dall’economia italiana.

Il tasso di disoccupazione nell’aprile 2015 è sceso al 12,4% dal 13% di marzo, dopo due mesi in cui era tornato a salire, rende noto l’Istat. Secondo i dati del ministero del Lavoro, nell’aprile 2015 sono stati 210.544 i nuovi contratti, calcolati come saldo tra quelli attivati e quelli cessati. Di questi, 48.536 sono nuovi contratti a tempo indeterminato. In calo anche il tasso di disoccupazione giovanile (15-24 anni), che si attesta al 40,9% rispetto al 43,1% di marzo, tornando al livello del dicembre 2014. Dati in miglioramento, ma non bisogna dimenticare che l’Italia è quarta nell’area Ocse per tasso di tasso di NEET e ultima per tasso di occupazione degli under 30 (fonte: Ocse).

Abbiamo fatto il punto sul lavoro in Italia dopo il Jobs act con Francesco Pastore, docente di Economia Politica ed Econometria alla Seconda Università degli Studi di Napoli, ricercatore dell’IZA di Bonn, segretario dell’Associazione Italiana degli Economisti del Lavoro e membro del comitato esecutivo dell’Associazione Italiana per lo studio dei Sistemi Economici Comparati. Pastore ha anche pubblicato molti libri e studi sulla transizione scuola-lavoro.

I dati dell’INPS e del Ministero del Lavoro dicono che c’è un boom dei contratti a tempo indeterminato, ma il tasso di disoccupazione ha iniziato a scendere solo nell’aprile 2015 comunque di poco. Come mai?

Il tasso di disoccupazione è influenzato dalla riduzione degli scoraggiati (coloro che, pur essendo disposti a lavorare, non cercano un impiego, ndr). Quando si creano nuovi posti di lavoro gli scoraggiati, soprattutto i giovani e le donne, ricominciano a cercare lavoro, aumentando al contempo la disoccupazione e l’occupazione. È un segno evidente di un clima di fiducia che sta nascendo nel nostro paese negli ultimi mesi. Speriamo che duri.

Pensa che il Jobs act di Renzi stia creando nuovi posti di lavoro a tempo indeterminato o che stia stabilizzando contratti a termine già esistenti?

Penso che stia dando luogo sia a nuove assunzioni, sia a stabilizzazioni. Comunque è sbagliato pensare che una legge che crea maggiore flessibilità nel mercato del lavoro crei anche nuova occupazione: la teoria economica neokeynesiana dice che con crescita e flessibilità si creeranno più posti di lavoro solo in caso di crescita, che attualmente langue da noi. Inoltre, è importante che avvenga una stabilizzazione dei contratti a termine esistenti, perché così si dà l’incentivo a giovani e datori di lavoro a investire di più nella formazione. Infine, la precarietà riduce le pensioni future e l’accesso ai mutui, negando ai giovani la possibilità di farsi una famiglia propria.

Secondo lei come si possono risolvere, o perlomeno alleviare, i problemi degli alti tassi di NEET e di disoccupazione giovanile in Italia?

Ho due proposte concrete. La prima: eliminiamo le barriere all’entrata nel mercato del lavoro, partendo dalle professioni. Non propongo l’abolizione delle professioni, sennò apriti cielo, ma di liberalizzarle. Facciamo dei seri esami di accesso alle professioni oppure organizziamo dei master che si concludano con un vero esame. In Italia, nell’arco di pochi anni è raddoppiata la percentuale di laureati, ma i posti di lavoro disponibili sono sempre gli stessi. Fino 1997 il 30% nuovi occupati trovava lavoro tramite concorsi pubblici, oggi solo l’8%. E così tutti si buttano nelle libere professioni, in particolare nell’avvocatura. Conosco bene le difficoltà che incontrano gli aspiranti avvocati visto che insegno alla Facoltà di Giurisprudenza a Napoli: lunghezza dei corsi universitari, rigidità degli esami di accesso alla professione. Sono esami arcaici, senza senso, che non certificano la presenza di competenze: sono una pagliacciata, per farla breve. Con questo sistema, vince chi ha genitori avvocati o è raccomandato: è una selezione antidemocratica, che crea immobilità sociale (uno degli 8 motivi della fuga dei cervelli all’estero, come abbiamo scritto su questo blog).

Un altro problema del mercato del lavoro riguarda la formazione: datore di lavoro e giovani neoassunti devono avere una prospettiva di un lungo rapporto di lavoro per sviluppare capitale umano. La mia seconda proposta è di stipulare un contratto in cui un giovane si impegna a stare con un professionista per 10-15 anni, in cambio di tutele e stipendio crescenti. A differenza del contratto a tutele crescenti, qui è prevista la formazione da parte del datore di lavoro in cambio della garanzia a restare a lungo del giovane professionista. Per questo integrerei questa proposta con la precedente, creando dei master che prevedano al loro interno anche un’esperienza di lavoro, regolata da un contratto di apprendistato lungo 10 anni. Contrattualizzare questo rapporto crea chiari diritti e doveri per entrambe le parti. Anche se il problema sta a monte: se l’università desse ai giovani le competenze che servono sul mondo del lavoro, il problema della formazione pratica non sarebbe scaricato su professionisti e datori di lavoro.

A questo proposito il segretario generale dell’Ocse Gurria il 27 maggio 2015 ha detto che il problema dell’Italia sono “i troppi giovani lasciano la scuola senza avere le competenze giuste e anche quelli che le hanno, trovano difficoltà ad utilizzarle in modo produttivo”.

È vero: i giovani italiani hanno un problema di mismatch di competenze rispetto alla domanda di lavoro: hanno tante competenze teoriche e poca pratica, perché non hanno esperienze lavorative alle spalle e neanche riescono a farle. Questo perché il mercato del lavoro italiano è bloccato, o comunque non ancora abbastanza flessibile, anche se il Jobs act sta cambiando un po’ le cose.

In Italia è diffusa la convinzione che l’unico modo per acquisire nuove competenze sia rendere più flessibile il mercato del lavoro. Ma esistono anche altri strumenti, come la scuola e la formazione professionale. Noi non abbiamo ancora sviluppato dei collegamenti tra la scuola e il mondo del lavoro e pensiamo che la scuola debba occuparsi solo dell’istruzione, mentre le esperienze lavoro sono un compito successivo delle aziende (modello sequenziale). Si tratta di un modello sbagliato: serve più alternanza scuola-lavoro. Questo è un elemento positivo della contestatissima Buona Scuola di Renzi: bisogna stare attenti a non buttare via il bambino con l’acqua sporca. Non è un caso che i Paesi con minore disoccupazione giovanile non siano quelli con un mercato del lavoro più flessibile, bensì quelli dove scuola e università sono più integrate. In particolare, l’Italia dovrebbe prendere spunto dal modello duale tedesco, in cui a scuola si acquisiscono sia istruzione, sia competenze lavorative. È un modello che funziona, dati alla mano: in Germania i giovani hanno la stessa probabilità di essere disoccupati degli adulti, nonostante il mercato del lavoro non sia particolarmente flessibile.

Sicuramente in Italia esiste anche un problema di bassa crescita, e quindi di bassa domanda di lavoro, ma eravamo nei guai già prima della Grande Recessione, con una disoccupazione giovanile 3-4 volte più alta di quella degli adulti.

In che misura la crisi ha peggiorato le prospettive occupazionali dei giovani?

La crisi ha inciso sul tasso di occupazione giovanile, peraltro in un momento in cui giovani avevano investito più in istruzione, soprattutto nella laurea. Sono convinto che la soluzione alla crisi non possa venire dall’Italia, ma dall’Europa: bisogna sciogliere il nodo della crescita a livello europeo per evitare di ripetere le esperienze di Grecia e Spagna.

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    Caro Francesco non condivido la tua diagnosi. In un mondo che cambia velocemente la formazione in entrata la devono fare soprattutto le imprese. Come accade negli altri paesi. Inoltre il mismatch dipende sia da fattori di domanda sia di offerta. Il confronti con la Germania e il riferimento a modelli duali non tiene conto della diversità tra il nostro ed il loro sistema imprenditoriale.

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