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Referendum costituzionale, quanto sono fondate le critiche alla riforma?

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Dalla clausola di supremazia, al rischio di una deriva autoritaria: analizziamo le critiche alla riforma costituzionale con l’aiuto di Quirino Camerlengo, professore associato presso l’Università degli Studi di Pavia e assistente di studio alla Corte costituzionale.

Mancano ormai pochi giorni al referendum costituzionale (si vota il 4 dicembre) ma la quota di indecisi resta alta. Anche perché alcuni aspetti un po’ più tecnici dietro le ragioni dei sostenitori e dei detrattori della riforma sono tuttora poco chiari. E invece noi vogliamo vederci chiaro.

Facciamo chiarezza con l’aiuto di Quirino Camerlengo, professore associato presso l’Università degli Studi di Pavia, che ha lavorato anche come assistente di studio alla Corte costituzionale.

Prof. Camerlengo, i detrattori della riforma lamentano un potenziale problema in merito al procedimento legislativo, paventando il rischio che un gran numero di possibili percorsi di approvazione delle leggi potrebbe bloccare l’attività del Parlamento, anziché snellire il processo. Quanto è realistico questo scenario?

Allo stato attuale, le due Camere si comportano come due doppioni, in quanto l’iter legislativo segue il medesimo schema. Il procedimento si conclude quando le due Camere approvano il medesimo testo. Il fenomeno della navetta, e cioè della spola da una Camera all’altra, è tutt’altro che infrequente.

Con la riforma, la funzione legislativa è assegnata alla sola Camera, mentre il modello bicamerale resterà solo per alcune tipologie di leggi tassativamente elencate. Sicché, la Camera approva il testo. Il Senato, entro un certo termine, può deliberare di esaminare quel testo, con possibilità di proporre emendamenti. La Camera, quindi, delibera in via definitiva.

I sostenitori del “no” lamentano una proliferazione di procedimenti legislativi. In realtà si tratta di “varianti procedimentali” (bilancio, conversione dei decreti legge, clausola di supremazia), ossia un fenomeno che anche la vigente Costituzione non ignora. Il procedimento è lo stesso e cambiano solo alcuni profili, che non incidono sulla tempestività dell’iter.

Sempre il fronte del “no” lamenta l’intervenuta complicazione della disciplina costituzionale: in particolare, l’articolo 70 (che riguarda appunto la funzione legislativa) passa da 9 a più di 400 parole. In realtà, ogni volta che si differenziano i ruoli di due organi che, sino a quel momento facevano le stesse cose, si ha una qualche complicazione. La Costituzione deve stabilire se e quando ci sono leggi “bicamerali”; se, cosa e come può fare il Senato per le leggi “monocamerali”; che cosa accade in caso di dissenso tra le due Camere.

Negli ultimi venti anni, il Parlamento si è ridotto ad operare quale organo di ratifica delle decisioni legislative assunte dal Governo: manovra di bilancio, trattati internazionali, conversione di decreti legge, sono i fronti sui quali il Parlamento impegna pressoché tutto il suo tempo. Questa riforma mira non solo a snellire il processo decisionale in Parlamento, ma anche a restituire a quest’ultimo una dignità e una autorevolezza smarrite da tempo, rendendo più netta la linea di demarcazione tra legislativo ed esecutivo, con vantaggi evidenti anche sul piano della individuazione chiara e puntuale delle rispettive responsabilità.

Un altro punto controverso riguarda i senatori, sia per quanto concerne la loro rappresentatività, sia la loro effettiva capacità di svolgere contemporaneamente due compiti, quello di senatore e quello di sindaco, o consigliere regionale. Che cosa pensa a riguardo?

Teniamo distinti i due piani.

È ben vero che i futuri senatori verranno eletti dai consigli regionali tra i consiglieri regionali e i sindaci. È ben vero che la riforma ribadisce il “divieto di mandato imperativo”, in forza del quale i senatori potranno esercitare le loro funzioni senza vincoli da parte delle istituzioni regionali. Nondimeno, anche alla luce dell’esperienza concreta, è difficile immaginare che i futuri senatori potranno agire in maniera politicamente e territorialmente “indisturbata”. Forse in un primo momento prevarranno le logiche dell’appartenenza partitica. Non è però da escludere che, nel medio e lungo periodo, gli stessi senatori saranno costretti a confrontarsi con le sollecitazioni provenienti dalle rispettive comunità, così da garantire una adeguata rappresentatività appunto territoriale.

Peraltro, la contrapposizione tra dimensione politica e dimensione della rappresentanza degli interessi territoriali non va drammatizzata: gli interessi territoriali vanno sempre intercettati, selezionati, interpretati e soddisfatti secondo logiche politiche, come accade normalmente (e da sempre) in contesti di democrazia rappresentativa.

Riusciranno i futuri senatori a conciliare le due cariche? Penso di sì, a condizione che siano adottate misure organizzative idonee a supportare i rispettivi mandati.

Sul “nuovo Senato”, più in generale, si dice inoltre, che le sue competenze siano state scritte maluccio e siano difficili da interpretare. Che cosa ne pensa?

Il “pasticcio” è una delle critiche più ripetute, in tutte le sedi, contro la riforma, anche se poi chi lo evoca difficilmente ne offre una prova tangibile.

Che, poi, il Parlamento non sia stato in grado di confezionare un prodotto accessibile anche all’uomo medio è un giudizio che si potrebbe formulare nei confronti di qualsiasi legislatore, persino costituzionale, sia futuro che passato. Basti ricordare che non mancarono voci autorevolissime di critica nei confronti del testo del 1947: «manca di chiarezza» (Calamandrei); «manca di coerenza e di armonia» (Croce); «ho letto il progetto della nuova costituzione. È una vera alluvione di scempiaggine. I soli articoli che meriterebbero di essere approvati sono quelli che rendono possibile emendare o prima o poi questo mostro di bestialità» (Salvemini). E in tutti questi anni la Corte costituzionale ha faticato non poco nel tentativo di decifrare disposizioni solo a prima vista chiare e comprensibili.

Ho la sensazione che questa, come altre, sia una argomentazione idonea ad essere spesa contro qualsiasi tentativo di riforma e, come tale, non sia per nulla decisiva.

C’è chi teme che, con la riforma, il potere dell’esecutivo cresca molto: quali sono i rischi d’una deriva autoritaria (anche in relazione alla nuova legge elettorale)?

Il pericolo di una “deriva autoritaria” sarebbe concreto se la riforma eliminasse o vanificasse gli istituti di garanzia della democrazia: il Presidente della Repubblica, la magistratura, la Corte costituzionale. Questa riforma non tocca la disciplina sostanziale di tali organi. Di fronte ad una legge “liberticida” il Capo dello Stato mantiene il potere di rifiutare la promulgazione, la magistratura serba intatta la propria legittimazione ad impugnare simili leggi davanti all’unico organo abilitato ad annullarle. Organo – la Corte costituzionale – che si vede, peraltro, assegnare una nuova competenza (il giudizio preventivo sulle leggi elettorali).

Piuttosto, la riforma mira a rafforzare la stabilità del Governo (ne abbiamo avuti 63 in 68 anni!): riducendo a due i protagonisti del “rapporto fiduciario”, contemplando una procedura accelerata per i disegni di legge strategici per l’attuazione del programma di governo. Nel contempo, però, la riforma sancisce limiti rigorosi al potere più forte del Governo, ossia la decretazione d’urgenza.

Il “combinato disposto” con una legge elettorale ad impronta maggioritaria mira a favorire una competizione elettorale dall’esito chiaro, scongiurando il rischio di mediazioni defatiganti, ricatti reciproci, veti incrociati, che hanno costellato la vita repubblicana dal 1948 ad oggi. Che poi l’Italicum presenti serie criticità è innegabile. Sono convinto che se la Corte costituzionale resterà fedele ai propri, anche recenti, precedenti, si perverrà ad una correzione di tale legge.

In fondo, mi sia consentito ricordare che l’esigenza di un esecutivo stabile fu avvertita persino in ambiti politici non coincidenti con quelli che hanno voluto questa riforma. Nel suo discorso di insediamento alla presidenza della Camera nel 1983, l’On. Nilde Iotti (che ideologicamente non può certo considerarsi ispiratrice delle tesi renziane) disse: «nessuno più di me … ha maturato il convincimento della necessità di riforme che rendano il Governo efficiente, stabile, forte».

Uno dei punti più controversi riguarda la cosiddetta “clausola di supremazia”: può spiegarci di cosa si tratta e in che modo potrebbe essere attivata dai futuri Governi?

Se c’è una parte un po’ “indigesta” della riforma è proprio quella che ha investito (è giusto il caso di dirlo) la parte relativa ai rapporti tra Stato e Regioni, il cosiddetto Titolo Quinto. È innegabile che il Parlamento sia andato giù pesante. Peraltro, per molte materie il Parlamento non ha fatto altro che seguire un trend della giurisprudenza costituzionale che dall’indomani della riforma costituzionale in senso federalista del 2001 ha ridimensionato alquanto l’autonomia regionale.

Il Parlamento ha riscritto l’assetto delle rispettive competenze e, nei settori che interessano più da vicino noi cittadini (salute, istruzione, lavoro, servizi sociali), ha tracciato una precisa linea di confine tra versante dei diritti (rimessi alle cure dello Stato) e versante della programmazione e dell’organizzazione delle relative attività (di competenza delle Regioni).

All’interno di questo quadro, così approssimativamente ricomposto, si inserisce la cd. “clausola di supremazia”: per tutelare l’interesse nazionale, l’unità giuridica, l’unità economica, la Camera, con legge proposta dal Governo e previo intervento forte del Senato, può approvare leggi idonee ad invadere materie regionali. D’altro canto, la stessa Corte costituzionale aveva già consacrato simili strumenti di ingerenza statale, nelle materie regionali, in deroga all’articolo 117: i compiti trasversali e la “chiamata in sussidiarietà”. Sarà compito della Corte costituzionale evitare un abuso di questa clausola, cercando un faticoso equilibrio tra le ragioni dell’unità e le ragioni della differenziazione.

Le chiediamo infine un’opinione, dal punto di vista di un docente di Diritto, che incontra studenti e partecipa a dibattiti in materia: secondo lei, con quale grado di consapevolezza e conoscenza della materia referendaria voteranno gli italiani?

Per ragioni di audience, i mass media hanno privilegiato logiche di scontro politico, piuttosto che concedere la parola a tecnici, a onor del vero non sempre accessibili ai più. In questo modo le contrapposte ragioni hanno assecondato la “pancia” degli elettori, piuttosto che la loro ragione.

Ai lettori di questo blog, sottopongo questa riflessione: la riforma mira a correggere il bicameralismo (da paritario ad asimmetrico), così da accelerare i processi decisionali e a rendere più chiare le competenze e le responsabilità degli organi che ci governano, nonché a correggere l’assetto delle competenze tra Stato e Regioni per garantire una maggiore uniformità di trattamento in tema di diritti. La riforma rivede il consolidato equilibrio tra le due facce della democrazia: quella rappresentativa (il momento del confronto dialettico) e quella governante (il momento della decisione). La seconda non annulla la prima: la canalizza in un equilibrio che si sforza di essere congeniale ai tempi mutati sin troppo rapidamente, che richiedono un inedito e urgente sforzo di risposta rapida alle tante e complesse sollecitazioni che provengono dalla società, a cominciare dall’economia. La Costituzione non ha qualità taumaturgiche. Molti dei problemi che affliggono le nostre istituzioni dipendono da una classe politica che, nel tempo, non è mai riuscita ad emendare i propri errori. Tuttavia, occorre investire su di un processo di riforma che – e bisogna crederci – concorrerà a mettere gli attori politici di fronte alle loro responsabilità, abbandonando l’inaccettabile e odiosa abitudine di scaricare sul dibattito e sulle difficoltà del confronto la loro incapacità di interpretare i problemi e di concepire soluzioni adeguate ai tempi.


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Quirino Camerlengo è professore associato di Diritto costituzionale presso l’Università degli Studi di Pavia (Dipartimento di Scienze economiche e aziendali). Abilitato alla I fascia di docenza universitaria, ha ottenuto un PhD in Diritto costituzionale. Già Assistente di studio alla Corte costituzionale.

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