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#ABCFinanza: Che cos’è l’alfa negli investimenti?

Alfa, gestione attiva, stock picking. Sono parole molto diffuse nel mondo degli investimenti, ma probabilmente incomprensibili per chi non ha dimestichezza con il complicato gergo finanziario.

In realtà, dietro questi termini si nasconde un concetto semplice.

Partiamo da un presupposto: solitamente fondi comuni e polizze unit linked hanno un obiettivo di gestione, costituito da un indice di mercato: l’indice di riferimento, o benchmark.

 

Rendimento extra, zero rischi?

Bene, l’alfa non è altro che il rendimento “aggiuntivo” rispetto all’indice di riferimento, rendimento che il gestore dovrebbe riuscire a “estrarre” senza rischi aggiuntivi grazie alle sue capacità e competenze.

Nello specifico, i gestori utilizzano sostanzialmente due modi per aggiungere valore e creare alfa:

  • scegliere titoli differenti e più promettenti rispetto al benchmark – il cosiddetto stock picking
  • prendere esposizione ad aree geopolitiche, settori e altri fattori di mercato in modo diverso rispetto all’indice di riferimento – l’asset allocation.

Il lavoro del gestore alla ricerca di alfa si chiama “gestione attiva”.

Nei fondi passivi, come gli ETF, l’alfa è nullo per definizione: questi prodotti puntano infatti a replicare fedelmente l’andamento del benchmark.

Al contrario, come abbiamo visto, il gestore attivo cerca di battere sistematicamente il mercato. L’indice alfa misura dunque la capacità di un gestore di selezionare titoli vincenti e di conseguire performance in eccesso non legate all’assunzione di maggiori rischi.

Quindi l’alfa è garanzia di rendimento extra senza rischi? Non esattamente. Come diciamo spesso, in finanza non esistono pasti gratis.

 

 

E alfa sia: ma a che prezzo?

Tanto per cominciare, infatti, l’alfa ha un costo. Come sottolineano molte società di gestione, per poter trovare i titoli migliori occorre visitare aziende, analizzare dati economici e finanziari e via dicendo.

Questo costo è contenuto nel TER (Total Expense Ratio), la commissione annua totale. Per una gestione attiva alla ricerca di alfa, questa si aggira in media sul 2%-3% l’anno (ma può essere anche molto più alta). È un fattore da considerare attentamente perché, sul lungo periodo, può incidere notevolmente sulle tasche dell’investitore.
 

 

Versioni discordanti

Inoltre, circolano ormai da tempo diverse teorie secondo cui l’alfa è rarissima, se non pura fantasia. Il punto è che i gestori “fuoriclasse”, in grado di individuare opportunità nascoste nelle pieghe del mercato, sono pochissimi – altrimenti non sarebbero dei fuoriclasse.

Non solo: l’alfa è effimera e sfuggente. Anche ammettendo di riuscire a scovare i gestori veramente bravi, infatti (in genere analizzando le loro performance), non è detto che, in seguito, quegli stessi gestori continueranno a essere bravi.

Stando a un’analisi di S&P Global basata sui dati di fondi azionari e obbligazionari di S&P Dow Jones, fatta 100 la quota di gestori che manifestano alfa positiva, dopo un anno meno di 20 sono in grado di continuare a generare valore. E dopo tre anni, la persistenza dell’alfa si avvicina allo zero.

Forse allora non è tutto oro quel che luccica: una ricerca della Johnson Cornwell University sostiene che, in realtà, spesso l’extra rendimento attribuito all’alfa sia semplicemente frutto di rischi maggiori – magari non evidenti, o poco chiari al gestore stesso.

Insomma, i gestori talentuosi, che riescono a scovare opportunità nascoste, esistono, ma non sono così frequenti come spesso l’industria vorrebbe farci credere. In ogni caso, per un investitore che ragiona su un’ottica di lungo periodo, trovare un investimento in grado di generare alfa in modo sostenibile e persistente nel tempo è un po’ come trovare il Sacro Graal. Occorre farsi due conti prima di decidere. E forse, in definitiva, un prodotto passivo è più conveniente sul lungo termine.

 


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