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Cosa sta succedendo alla sterlina (e quale lezione possiamo trarne)?

Il Regno Unito si trova nel bel mezzo di una tempesta valutaria: la sterlina è crollata a picco all’inizio della settimana, avvicinandosi alla parità con il dollaro (ha toccato un minimo di 1,035 dollari nel corso della seduta, circa il 22% in meno rispetto a sei mesi prima), mentre il tasso di interesse pagato dal Regno Unito per indebitarsi a 30 anni ha toccato punte del 5,14% e quello a 10 anni è schizzato al 4,25%, il maggiore rialzo in un mese dal 1979. Tanto che il differenziale di rendimento con il Bund tedesco è passato da 130 a 210 punti.

Nei giorni successivi, i mercati si sono parzialmente stabilizzati e la sterlina ha ripreso un po’ di terreno. Anche grazie all’intervento della Bank of England, che il 28 settembre ha annunciato l’acquisto di titoli di Stato e il posticipo della vendita di titoli in suo possessoper ripristinare le normali condizioni di mercato. “La Banca effettuerà acquisti di titoli di Stato a lunga scadenza”, ha detto la BoE in un comunicato, precisando che questa “operazione sarà interamente finanziata dal Tesoro”. Nel comunicato, l’istituto centrale britannico precisa anche che manterrà l’obiettivo di ridurre il proprio attivo di 838 miliardi di sterline di gilt (i titoli di Stato pluriennali britannici), ma l’avvio delle vendite, previsto per la prossima settimana, è rinviato a causa delle condizioni di mercato.  Nonostante questo, diversi analisti temono che la traiettoria discendente della sterlina (che sta perdendo terreno da tempo nei confronti con il dollaro, anche se non a questa velocità) non sia ancora finita.

 

 

 

 

 

Perché la sterlina è crollata?

Ad accendere la miccia è stato il piano economico presentato dal nuovo governo guidato da Liz Truss, in carica da appena tre settimane: la proposta prevede un drastico taglio delle tasse alle fasce più ricche della popolazione, con l’obiettivo di stimolare una crescita economica messa a dura prova dall’inflazione (l’indice dei prezzi al consumo si è attestato al 9,9% in agosto, ma Citi stima che possa raggiungere il 18,6% a gennaio del 2023).

Le intenzioni insomma erano anche buone. Peccato che la manovra proposta da Truss (o per meglio dire, dal cancelliere dello Scacchiere Kwasi Kwarteng), un piano da 45 miliardi di sterline di tagli fiscali, più i sussidi per il caro-energia, sarebbe da finanziare interamente a debito, cosa che farebbe schizzare il deficit pubblico al 9%, vicino ai massimi degli ultimi 40 anni. Aggiungiamoci che tutto questo avviene in un contesto di tassi in rialzo (al momento la banca centrale li ha portati al 2,25%), cioè di aumento del costo a cui famiglie, imprese e Stato possono prendere denaro in prestito. Insomma, una manovra a dir poco azzardata.

Non sorprende dunque che gli investitori internazionali si mostrino scettici sulla tenuta dell’economia britannica, alzando la posta del premio preteso per acquistare i titoli di Stato del Paese.

Come nota il Financial Times, nel mercato dei titoli di Stato inglesi non c’era mai stato, almeno negli ultimi 35 anni, un movimento così brusco dei prezzi e dei rendimenti. Neanche in occasione di grandi eventi come l’uscita del Regno Unito dal Sistema monetario europeo (Sme), l’attentato alle Torri Gemelle di New York dell’11 settembre 2001, la crisi finanziaria del 2008, Brexit o la pandemia da coronavirus.

Al momento, l’aspettativa dei mercati è che i tassi d’interesse britannici possano salire fino al 6% e le conseguenze per i consumatori già si fanno sentire, con diverse banche che, come scrive il Corriere della Sera, stanno ritirando i mutui dal mercato in attesa di una schiarita.

 

Fmi: il Regno Unito ci ripensi sul taglio delle tasse

Le istituzioni internazionali si mostrano preoccupate. Il Fondo monetario internazionale, per esempio, ha esortato il governo britannico a rivedere il pacchetto di taglio delle tasse, che rischia di gettare ulteriore benzina sul fuoco dell’inflazione e di aumentare le disuguaglianze economiche.

 

Viste le elevate pressioni inflazionistiche in molti Paesi, incluso il Regno Unito, non raccomandiamo pacchetti fiscali ampi e non mirati in questa fase, poiché è importante che la politica fiscale non operi in contrasto con la politica monetaria. Inoltre, la natura delle misure britanniche rischia di aumentare le disuguaglianze.

 

 

Moody’s: sostenibilità del debito a rischio

Moody’s Investors Service, da parte sua, ha detto che la manovra proposta dal governo britannico potrebbe provocare danni duraturi alla sostenibilità del debito del Paese. L’agenzia di rating ha anche tagliato le stime sul Pil britannico per il 2023 dallo 0,9% allo 0,3% e vede ora il debito pubblico britannico intorno al 104% del Pil nel 2026.

 

Gli ampi tagli fiscali non finanziati sono negativi per il credito. Una simile mossa porterà a deficit strutturalmente più elevati in un contesto di aumento dei costi di finanziamento, di prospettive di crescita più deboli e di forte pressione sulla spesa pubblica derivante dalla pandemia e da un decennio di austerità.

 

La perdita di valore della sterlina, tra l’altro, potrebbe costringere la Banca d’Inghilterra ad accelerare il rialzo dei tassi di interesse per sostenere la valuta, rischiando però di danneggiare ulteriormente l’economia inglese, per cui la banca centrale prevede già una duratura recessione a partire dal 2023. Un circolo vizioso in piena regola.

Ci sono però – va detto – anche le voci fuori dal coro. Per esempio quella di Paul Krugman, premio Nobel per l’Economia nel 2008, che trova eccessiva la reazione dei mercati. A suo parere, infatti, essi “stanno trattando il Regno Unito come un’economia emergente, in cui gli investitori vedono gli ingenti aumenti di debito come segno di irresponsabilità politica e presagio di un futuro disastro”.

 

Quale lezione per l’Italia?

Il tracollo della sterlina è avvenuto praticamente in concomitanza con la vittoria della leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni e della sua coalizione alle elezioni italiane. E ha fatto specie vedere titoli di Stato e azionario del Belpaese sostanzialmente indifferenti alle evoluzioni politiche interne (evidentemente già scontate), mentre a tremare sono stati appunto i mercati d’Oltremanica. La lezione che ne possiamo trarre, in realtà, non vale solo per il nostro Paese, ma un po’ per tutti. E riguarda il funzionamento dei mercati.

Sì, perché i mercati non guardano in faccia nessuno: quello che conta sono i fatti. Come riassume bene un articolo pubblicato sul quotidiano Il Sole 24 Ore, “agli investitori non interessa il colore di un governo, ma interessa molto quello che il governo fa”. Non importa se un Paese sia dentro o fuori dall’Unione europea (come nel caso del Regno Unito): se la sensazione è che si stia indebitando troppo e che abbia i conti fuori controllo, i mercati reagiscono.

Del resto, come abbiamo scritto in un recente post sull’esito del voto in Italia, non dobbiamo dimenticare che l’esistenza stessa del debito pubblico implica che nel mondo c’è tutta una serie di creditori. Creditori che – giustamente – vogliono essere rassicurati sul fatto che lo Stato a cui hanno prestato i loro soldi non farà default e che, anzi, gestirà con criterio le sue finanze pubbliche.

 


 

 

Scritto da

La scrittura è sempre stata la sua passione. Laureata in Economia per le Arti, la Cultura e la Comunicazione all’Università Bocconi di Milano, è entrata nel mondo del giornalismo nel 2008 con uno stage in Reuters Italia e successivamente ha lavorato per l’agenzia di stampa Adnkronos e per il sito di Milano Finanza, dove ha iniziato a conoscere i meccanismi del web. All’inizio del 2011 è entrata in Blue Financial Communication, dove si è occupata dei contenuti del sito web Bluerating.com e ha scritto per il mensile Bluerating.

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