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Il downgrade del… sogno americano

Mettiamo subito le cose in chiaro: la campagna elettorale americana del 2012 non sarà ricordata per le memorabili proposte di politiche pubbliche provenienti da Democratici e Repubblicane, né per particolari innovazioni nel rapporto candidato-elettore. Se nel 2008 queste ultime hanno avuto un peso notevole nella costruzione dell’immagine obamiana, saldamente ancorata ai temi della speranza e del cambiamento, a quattro anni di distanza lo scenario è cambiato radicalmente. Per diverse ragioni ma una in particolare: l’economia.

Elezioni negli Stati Uniti: Obama vs Romney. Chi vincerà?
Secondo l’ultimo Job Report pubblicato dal Bureau of Labor Statistics, nel 2012 sono stati creati in media 139.000 nuovi posti di lavoro al mese contro gli oltre 150.000 del 2011, il tasso di disoccupazione si attesta oltre l’8%, calando nel mese di agosto di 0,2 punti percentuali perché una parte di disoccupati ha addirittura smesso di cercare lavoro, ma soprattutto i nuovi posti di lavoro vengono dai settori del retail e del turismo, caratterizzati da profili a basso valore aggiunto e fatturati assai sensibili alle fluttuazioni del ciclo economico. Di più, interpellati da diverse società d’indagine, gli Americani hanno assegnato all’economia e alla creazione di nuovi posti di lavoro la priorità assoluta tra i temi di questa campagna elettorale. In uno scenario di questo tipo, Mitt Romney, il candidato repubblicano uscito vincitore dalle primarie di partito, avrebbe dovuto avere vita facile per la conquista della Casa Bianca, per giunta supportato da un’opinione pubblica che lo vede più credibile di Barack Obama nella capacità di mettere mano ai meccanismi che regolano l’economia del Paese, grazie all’aura di super manager che si è costruito negli anni in cui è stato a capo di Bain Capital.

Eppure non basta: se il suo passato gli consente di ottenere un alto grado di “likability” in campo economico, non sempre questa percezione si traduce in intenzione di voto. Romney è un uomo che si è guadagnato nel tempo l’appellativo di flip-flopper, voltagabbana, per via di una prassi piuttosto abusata nel cambiare posizione su temi di primaria importanza a seconda dell’umore pubblico, sacrificando presunti ideali sull’altare del consenso di breve termine. Non solo voltagabbana, ma anche senza cuore: per quanto bravo nel suo mestiere, ha costruito le sue fortune associando allo spirito imprenditoriale un presunto spiccato ricorso all’elusione fiscale (pratica ricorrente tra le grandi aziende americane, Apple in primis) e alle operazioni di leveraged buyout (operazione di finanza strutturata utilizzata per l’acquisizione di una società mediante lo sfruttamento della capacità di indebitamento della società stessa) che, per quanto legali, non rappresentano certo una carta spendibile per chi, negli Stati Uniti, si candida a guidare un Paese garantendo gli interessi di tutti, non solo quelli di chi ha guadagnato milioni di dollari dal fallimento di diverse aziende.

Sulle ambiguità del personaggio e della sua ricetta economica per risollevare le sorti del Paese – 20 milioni di posti di lavoro nel settore energetico con tanto di indipendenza degli USA in meno di 10 anni – lo staff di Obama for America ha concentrato gran parte degli sforzi per convincere gli elettori americani dell’inconsistenza politica impersonata dal duo Romney-Ryan, relegando scientemente in secondo piano l’inefficacia del piano messo in piedi dal Presidente americano.

In questo gioco al ribasso – definito ironicamente dal Washington Postio sarò pure così e così ma quell’altro è proprio terribile” – lo scontro si polarizza sulle differenze profonde tra i due candidati: il figlio del ragazzo venuto da un villaggio sperduto del Kenya e cresciuto dalla nonna bianca contro il figlio del magnate dell’industria automobilistica, l’intellettuale contro il businessman, una visione del governo più presente nel garantire i servizi essenziali contro l’idea che la dipendenza dalle casse del governo rappresenti un fallimento per la società americana, oltre che una zavorra per il governo stesso.

Se in questo scenario Obama, in crisi di consenso nei confronti degli elettori meno schierati, si vede costretto a dare in outsourcing a Clinton il discorso pubblico in tema di economia, non è solo il downgrade del sogno obamiano a destare preoccupazione: è la sensazione che il downgrade investa direttamente il sogno americano, ereditato da una società che è sempre più convinta di aver lasciato alle proprie spalle gli anni migliori e fiaccato da una classe dirigente in evidente affanno nell’elaborazione d’idee per il presente e il futuro prossimo.

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