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Come difendersi dallo spettro del default di uno Stato

Come evitare il pericoloso rischio default di uno stato

Dopo le elezioni italiane di domenica 4 marzo, ci sono voluti quasi tre mesi per formare un governo, tra gli stop&go fra Quirinale e Lega-5Stelle e con lo spettro del piano B per uscire dall’euro sullo sfondo. In questa delicata fase, è tornato in voga il paragone fra l’Italia e la Grecia. Ricordate?

Quasi 10 anni fa

Nell’autunno 2009, il partito socialista Pasok vinse le elezioni e denunciò il mastodontico gap fra le previsioni del governo uscente e l’amara verità dei conti pubblici: il rapporto deficit/PIL era addirittura il doppio, pari al 12%. A fine dicembre, il piano “lacrime e sangue” dell’esecutivo Papandreou.

Tra aiuti internazionali, austerità, troika FMI-BCE-UE e haircut del debito pubblico (riduzione del valore nominale dei titoli posseduti del 50% e allungamento della loro scadenza), i movimenti populisti e anti-establishment guadagnarono consensi e a fine gennaio 2015 andarono al governo con la sinistra radicale di Syriza, guidata da Alexis Tsipras. Partì quindi il braccio di ferro con la troika sul rimborso del debito.

La crisi del debito

La Banca Centrale Europea tolse alle banche elleniche l’accesso alle normali aste di liquidità. Risultato: i quattro principali istituti del Paese si ritrovarono alla canna del gas, con l’impossibilità per chiunque di effettuare prelievi (e poi con prelievi contingentati). I creditori proposero quindi a Tsipras un piano di rientro dal debito, che Tsipras sottopose a referendum.

Il 5 luglio 2015 dalle urne uscì vincitore il No con il 62% dei voti. Si parlò di Grexit e ritorno alla dracma, ma poi, qualche giorno dopo, Tsipras e i creditori raggiunsero un accordo. Sono trascorsi quasi tre anni e la Grecia fa ancora parte dell’area euro, anche se le difficoltà non sono tramontate e si parla di un nuovo piano di salvataggio con un ulteriore allungamento del debito.

Come nasce un default

Ufficialmente, in Europa un default sovrano non si verifica dal secolo scorso. Tuttavia, il Vecchio Continente è reduce da un decennio di crisi finanziaria i cui effetti, in Paesi come Grecia e Italia, sono stati amplificati dalla particolare fragilità dei conti pubblici. Da qui, il caos ellenico.

Ma quando un Paese si può considerare tecnicamente in default? Quando non è più in grado di versare ai sottoscrittori delle obbligazioni emesse dal governo centrale non solo gli interessi ma anche il capitale da questi inizialmente investito. Uno Stato in default non riesce a pagare i dipendenti pubblici, le pensioni, i fornitori della pubblica amministrazione e meno che mai riesce a garantire i servizi sanitari e scolastici.

Quei debiti mai rimborsati

Il grafico che riportiamo qui sotto è tratto dal Database of Sovereign Defaults, 2017 pubblicato dalla Bank of Canada e basato sui dati del suo Credit Rating Assessment Group (CRAG): negli anni che vanno dal 1986 al 2015, il default risulta un tema principalmente nei Paesi emergenti e di frontiera, mentre le economie avanzate compaiono nell’ultima manciata di anni.

Nota a margine: HIPC sta per Heavily Indebted Poor Countries, ossia Paesi poveri pesantemente indebitati (esempio: Congo e Mozambico).

A mali estremi

Un Paese in default, poco ma sicuro, è un Paese nel caos. Nel 2001, in Argentina, i risparmiatori cominciarono a ritirare grosse somme di denaro dai conti correnti con l’obiettivo di convertirli in dollari USA e possibilmente portarli all’estero. Il governo contrastò la corsa allo sportello adottando una serie di misure per congelare di fatto i conti bancari per 12 mesi, consentendo solo prelievi di piccole somme di denaro.

Un doppio vincolo, quello ai prelievi e alla circolazione dei capitali, abbastanza frequente nei casi di default conclamato o imminente. Così come il prelievo forzoso sulla liquidità, operazione messa in atto a Cipro nel 2013 da governo e Troika e nel 1992 in Italia dal governo Amato per salvare la lira.

“Whatever it takes”

Per salvare l’euro dal caos greco, l’imperativo fu fare “whatever it takes”, come disse il presidente della BCE Mario Draghi nell’estate 2012. Non prendere o limitare ma dare liquidità tenendo i tassi a zero e comprando obbligazioni emesse dagli Stati dell’area euro (il famoso quantitative easing).

Nei giorni scorsi sono circolate voci – rilanciate dal Financial Times – secondo cui dopo il fallimento del primo tentativo di formare il governo Conte la Banca Centrale Europea avrebbe ridotto i suoi acquisti di titoli italiani, dal che l’aumento del differenziale di rendimento BTp-Bund oltre i 300 punti base.

Il Sole 24 Ore ha riferito invece che gli acquisti a maggio sono stati in linea con gli altri mesi. Vero è che la BCE sta riducendo gli acquisti di asset: ma lo sta facendo, come programmato, da gennaio (quando li ha ridotti da 60 a 30 miliardi al mese), per mettere progressivamente fine al quantitative easing.

Quanto rischia l’Italia?

L’Italia – con un rapporto debito/PIL del 132% circa, con il deficit/PIL al 2,3% e alla luce degli ambiziosi e costosi punti del programma di governo Lega-5 Stelle – è a rischio? E se il Paese – speriamo di no – dovesse seguire una parabola simil-greca facendo lievitare deficit e debito e perdendo credibilità agli occhi dei creditori (Moody’s l’ha già rimessa sotto osservazione), ci sarà un “whatever it takes 2”? Difficile, proprio perché la BCE sta ritirando le sue truppe dal campo.

Anzi: i “falchi” pretendono un’accelerazione. E il prossimo anno la loro voce diventerà più forte, dato che Draghi arriverà a fine mandato e a sostituirlo sarà, molto probabilmente, Jens Weidmann (intransigente tedesco, ça va sans dire).

Diversificare a tutti i livelli

Insomma, il susseguirsi di eventi che si profila comporta nuovi rischi per risparmiatori e investitori e ci consegna due grandi lezioni: sconsigliato tenere tutti i soldi fermi sul conto corrente e altamente consigliato invece limitare i danni con un buon grado di diversificazione, sia a livello di scelte di portafoglio ma anche territoriale dei risparmi, scegliendo direttamente in prima persona gli operatori ai quali affidarsi.

E gli operatori esteri autorevoli e accreditati, come noi di Goodwill Asset Management, possono essere una buona via per diversificare e proteggersi da eventi geo-politici estremi. Perché, si sa, del domani non c’è certezza.


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