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Welfare e famiglia: abbiamo bisogno dei big data?

La crisi scatenata dall’esplosione del Coronavirus ha coinvolto ogni aspetto della nostra vita. Quale potrebbe essere il ruolo dei big data per costruire politiche più efficaci e mirate di welfare per le famiglie?

Nonostante le questioni di privacy e trasparenza, disporre di molte informazioni specifiche sul patrimonio e sulle passività delle singole famiglie potrebbe aiutare a comprendere meglio quali siano i loro reali bisogni.

La pandemia ha sottolineato ancor di più questa esigenza, visto che i governi di tutto il mondo hanno messo in campo una serie di misure massicce a sostegno delle famiglie. Ma queste politiche sono state realmente efficaci? Le risposte dei decisori sarebbero più mirate ed efficienti se avessimo dati sufficienti per comprendere le diverse condizioni delle famiglie?

 

La tecnologia a disposizione è obsoleta

Una delle principali difficoltà riscontrate nell’elaborazione di politiche efficaci è rappresentata dal fatto che i responsabili decisionali spesso devono lavorare con statistiche tradizionali e dati derivati da censimenti obsoleti. I social media e altre fonti nuove e innovative possono migliorare i dati con informazioni aggiornate e dinamiche sui vari trend e possono aiutare chi ci governa a restare al passo con l’evoluzione dei fenomeni, rendendo in caso di emergenza, come è stata la pandemia, i “soccorsi” più mirati.

Basti pensare al recente U.S. CARES Act, adottato dall’amministrazione statunitense durante la pandemia: sono stati erogati 1.200 dollari a tutti i cittadini con reddito inferiore a 150.000 dollari, ma questo indipendentemente dal fatto che le persone ne avessero realmente bisogno a causa del Covid-19. Misure del genere, sono davvero utili?

Pensiamo alle banche. Guardando alle crisi passate, i governi hanno condotto stress test sugli istituti finanziari per vedere come se la sarebbero cavata in caso di shock economico. Ciò che manca alla politica è una sorta di stress test per le famiglie per capire e misurare la loro reale capacità di resistenza e resilienza.

 

 

Politiche più mirate per le famiglie grazie ai Big Data?

Partiamo innanzitutto dalla definizione di Big Data.

Il termine Big Data è emerso per descrivere la fenomenale raccolta di informazioni che si è verificata con l’avvento della tecnologia digitale. Si tratta di una tecnologia che si occupa soprattutto di raccogliere, elaborare, selezionare una grandissima massa di dati, diversi tra di loro.

Il modo di utilizzare queste informazioni è diventato una delle principali preoccupazioni dei governi, dei responsabili politici, delle istituzioni finanziarie e delle imprese. Oggi non c’è più nulla di particolarmente nuovo nell’uso dei dati e della tecnologia: la vera novità non è la quantità di informazioni che abbiamo a disposizione ma la loro qualità. Cambia la massa dei dati, cambia il nesso tra di loro e, quindi, il loro significato e anche il loro uso.

Circa il 90% dei dati presenti oggi nel mondo è stato generato negli ultimi due anni. Sembra impossibile, ma è così. Secondo alcuni modelli di analisi dei flussi globali di notizie, nel 2010 erano poi stati prodotti, in un anno, oltre 1,2 zettabytes, 10 alla 21° bytes, ovvero un sestillione di bytes, mentre, nel 2020, arriveremo alla produzione annuale di 35 zettabytes.

 

Una miriade di dati, ma ci servono realmente?

Avere a disposizione una mole simile di dati può essere una grande opportunità per i governi, offrendo ad esempio la possibilità di adattare le politiche in tempo reale o di definire e prevedere i rischi in modo più chiaro. Inoltre, è molto utile per la valutazione delle linee di sviluppo di fenomeni di grande complessità, linee che divengono visibili e statisticamente rilevanti e che si generano, comunque, solo sulla base di immani quantità di dati.

Dunque, è evidente che stiamo andando verso la quantificazione del decision making e che questo da un punto di vista tecnologico è possibile, grazie a modelli di machine learning e intelligenza artificiale che permettono di avere informazioni sempre più di qualità.

Ma non possiamo non considerare la questione etica che questo fenomeno fa emergere con forza, perché i problemi di trasparenza e privacy sono evidenti. Per questo motivo andrebbe garantita la massima trasparenza delle attività di raccolta dei dati, e quando possibile sarebbe preferibile l’utilizzo di dati anonimi.

Un giusto uso dei big data potrebbe aiutarci a monitorare la fragilità finanziaria, ci permetterebbe di indirizzare gli interventi politici e di valutane l’efficacia. Si tratta di orientare efficacemente i consumi in tempi di difficoltà economiche e di garantire che la regolamentazione finanziaria sia adeguata alle diverse condizioni delle famiglie. È un passo certamente importante da fare ma che richiede la massima prudenza e una efficace valutazione dei rischi in modo possano essere arginati.

 



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