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Robotizzazione del lavoro: 3 mosse per giocare d’anticipo

“La scoperta di mezzi per economizzare l’uso del lavoro sarà più veloce rispetto alla creazione di nuovi usi del lavoro”. Chi ha proferito questa frase che suona un po’ anti-progresso? Ned Ludd, Isaac Asimov o i fratelli Wachowski? Macché. La profezia è dell’economista John Maynard Keynes ( “Possibilità economiche per i nostri nipoti”, 1933). Una previsione che pare proprio si stia avverando: migliaia di posti di lavoro rischiano di essere spazzati via dalla tecnologia in Europa e Usa. Uno scenario che fa ancora più paura in Italia, soprattutto ai più giovani: stando ai dati Istat, il tasso di disoccupazione dei 15-24enni ad agosto 2020 è stato del 28,9%, registrando un balzo dell’1% rispetto ai mesi precedenti.
Certo, la pandemia non ha fatto altro che esasperare un trend negativo che dura da anni, ricordandoci inoltre che molto spesso la “presenza umana” non conta pii così tanto negli uffici.

In questo scenario, vediamo quanti sono i “panda” del mercato del lavoro italiano, le nuove opportunità di lavoro offerte dalla tecnologia e proviamo infine a darvi qualche utile suggerimento per trovarvi preparati dinanzi al lavoro del futuro.

 

I posti di lavoro a rischio

Quali sono le categorie di lavoratori che rischiano di più di essere rimpiazzati da una macchina? Secondo gli studi in proposito sono quelli caratterizzata da maggiore RTI (routine-task intensity), ovvero coloro che svolgono i lavoro più ripetitivi, di routine e che seguono procedure definite.
Non dimentichiamoci che la tecnologia è anche un valido alleato per il ridimensionamento delle aziende in tempi di crisi: una ricerca del McKinsey Global Institute infatti certifica che il 44% delle imprese che ha tagliato il personale a partire dal 2008, è riuscita a farlo grazie all’automazione dei processi.

 

Come riconoscere i lavori a rischio robotizzazione?

Frey e Osborne dell’Università di Oxford hanno individuato le quattro caratteristiche dei lavori a minor rischio di rimpiazzo da parte delle macchine:

  • Percezione. Quella umana è inarrivabile per i computer in termini di profondità e ampiezza, soprattutto in ambienti di lavoro non strutturati.
  • Manipolazione. Gli esseri umani sono in grado di gestire oggetti irregolari molto meglio dei robot. La manipolazione delle macchine è inoltre limitata dalla loro difficoltà a pianificare i movimenti per spostare degli oggetti da un posto all’altro.
  • Creatività. L’abilità di avere idee (poesie, teoremi, ricette, trucchi) e di creare artefatti (come sculture e macchinari) nuovi e giudicati di valore richiede conoscenze ampie, da combinare in modo sensato. Il concetto di “valore” di un’opera creativa cambia a seconda del periodo storico e della cultura di appartenenza, pertanto è difficile da ingegnerizzare.
  • Intelligenza sociale. Quest’ultima racchiude abilità di negoziazione, persuasione e cura. Gli algoritmi riescono a riprodurre alcuni aspetti dell’interazione umana, ma sono ancora ben lontani dal riconoscere i sentimenti umani e quindi a rispondervi coerentemente, anche con un puro testo.

Ma in che misura l’Italia, gli Usa e gli altri Paesi europei hanno posti di lavoro che rischiano di essere spazzati via dalle macchine? Nel Belpaese, sono a rischio più della metà dei posti di lavoro: il 56,18%. Considerando il mondo occidentale, siamo sesti: tra la Polonia e la Spagna. Il Paese europeo a più alto rischio di sostituzione dei posti di lavoro è la Romania, dove si sfiora il 62%. I lavoratori possono stare relativamente più tranquilli in Svezia, poco sotto al 47%.
Sorge spontanea a questo punto una domanda: la tecnologia è un male per il nostro mercato del lavoro?

 

 

Le nuove opportunità di lavoro offerte dalla tecnologia

L’invenzione o la scoperta di una nuova tecnologia, quando dà vita a un’innovazione, porta a una “distruzione creatrice”, diceva Schumpeter. Questo implica che si distruggono senz’altro posti di lavoro (“distruzione”), ma al contempo se ne creano di nuovi (“creatrice”). Pensate a quante professioni sono nate con l’avvento del web: il social media manager, il blogger, il SEO specialist, gli sviluppatori, i web designer e via discorrendo.
Ad oggi, tra le dieci professioni più diffuse tra gli oltre 295 milioni di iscritti a LinkedIn, otto sono legate al web: sviluppatori iOS e Android; stagista che lavora sui social media; data scientist; designer UI/UX, architetto di big data, lo specialista di servizi sul cloud e di marketing digitale.
In 15 anni sono nati in Italia 700mila posti di lavoro legati a Internet, per un impatto sul Pil del 2%. Piuttosto limitato. Il motivo è presto detto: il Belpaese è in ritardo con l’attuazione dell’Agenda digitale. Inoltre, l’alfabetizzazione digitale è uno dei nostri talloni d’Achille, che purtroppo non ci permette di sfruttare appieno tutte le potenzialità del web.
Ad ogni modo, il cambiamento del lavoro in senso più tecnologico impone di cambiare anche a noi, se non vogliamo subirlo passivamente.

 

Prepararsi oggi al lavoro di domani in tre punti

    1. Giocare d’anticipo
    Coloro che hanno delle competenze ad alto rischio di sostituzione tecnologica, devono puntare, investire e focalizzarsi su quelle più difficilmente replicabili dalle macchine: percezione, manipolazione, creatività e intelligenza sociale. Questo implica che il sistema educativo dovrà essere in grado di fornire la formazione giusta per permettere questo ricollocamento.

    2. I capi devono decidere diversamente
    Nemmeno i top manager possono dormire sonni tranquilli, contando su istruzione ed esperienza di alto livello. Lo rivelano una serie di interviste sul tema condotte da McKinsey ad alcuni opinion leader in occasione del World Economic Forum di Davos. Secondo gli scienziati Jeremy Howard ed Erik Brynjolfsson, in un mondo sempre più guidato dai big data, i dirigenti devono prendere decisioni basandosi più sui dati che sulla loro intuizione, in modo da ottenere risultati migliori.

    3. I capi devono decidere diversamente
    Nemmeno i top manager possono dormire sonni tranquilli, contando su istruzione ed esperienza di alto livello. Lo rivelano una serie di interviste sul tema condotte da McKinsey ad alcuni opinion leader in occasione del World Economic Forum di Davos. Secondo gli scienziati Jeremy Howard ed Erik Brynjolfsson, in un mondo sempre più guidato dai big data, i dirigenti devono prendere decisioni basandosi più sui dati che sulla loro intuizione, in modo da ottenere risultati migliori.

    4. Nuovi leader
    Serve un cambio di paradigma anche per quanto riguarda i leader: conterà meno, in futuro, la conoscenza particolare di una certa materia e l’esperienza. Quello che conterà davvero per reggere le sorti delle organizzazioni sarà la capacità di leggere i dati e di saper trovare i dataset in grado di risolvere un certo problema. Questa ricerca spasmodica di dati sta alla base del settore dei Big Data, uno dei grandi trend del futuro.

     


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