Basta prendere in mano un quotidiano qualunque, guardare un tg, accedere alla homepage di qualsiasi sito di informazione: tutti parlano di coronavirus1, nome in codice 2019-nCoV.
Partito dalla città di Wuhan, in Cina, il virus – una specie di influenza che colpisce soprattutto le vie respiratorie – si è diffuso rapidamente dentro e fuori i confini nazionali e i numeri dei contagiati e delle vittime si aggiornano di ora in ora. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha dichiarato l’emergenza globale per la sua diffusione. Ad oggi, il tasso di mortalità è intorno al 3% dei casi.
Lasciando da parte le questioni strettamente mediche, che non ci competono, quali effetti potrebbe avere il coronavirus a livello economico e finanziario?
Le conseguenze economiche e finanziarie
In un contesto in cui i consumi interni costituiscono una spinta sempre più decisiva per l’economia cinese, il capo economista di Standard & Poor’s per l’Asia-Pacifico Shaun Roache ipotizza una contrazione del Prodotto Interno Lordo cinese del’1,2% qualora le spese per trasporti e svago in luoghi pubblici calassero del 10%. Ma una contrazione economica cinese vuol dire minor crescita a livello globale.
Sapendo con cosa ha a che fare, la banca centrale cinese ha optato per una maxi-iniezione di liquidità da 1.200 miliardi di yuan, pari a circa 174 miliardi di dollari, a sostegno dell’economia del Paese.
Sul fronte dei mercati, l’indice MSCI China ha perso circa l’8% da metà gennaio, quando il contagio ha iniziato a far parlare di sé, mentre la Borsa di Shanghai, rimasta chiusa fino al 3 febbraio proprio per via della diffusione del coronavirus, ha perso quasi il 9% alla riapertura, con lo yuan al minimo della sua quotazione da inizio anno.
Tuttavia, il “panico da virus” potrebbe paradossalmente aprire opportunità interessanti: infatti, passata l’emergenza – prevedibilmente nel giro di qualche mese – nulla esclude che le quotazioni tornino su livelli normali. E magari anche oltre. D’altra parte, è qualcosa che abbiamo già visto.
La lezione della SARS
Era successo qualcosa di simile con l’epidemia di SARS, iniziata anch’essa in Cina alla fine del 2002: in quel caso l’indice MSCI China aveva perso terreno fino all’aprile del 2003, culmine delle notizie negative, per poi risalire del 36,8% (in dollari) fino al 9 luglio 2003, quando l’OMS ha dichiarato terminata l’emergenza.
In quest’ottica, i cali momentanei potrebbero fornire ancora una volta una buona occasione di ingresso per scommettere su un mercato con caratteristiche molto interessanti – e che fino a poco tempo fa era difficilmente accessibile agli investitori esteri “retail”.
La Cina vanta infatti una classe media tra le più popolose al mondo, una fascia di consumatori con un’enorme ricchezza ancora da investire, che grazie alla graduale apertura del mercato finanziario cinese potrebbe riversarsi sui mercati internazionali.
Nel maggio del 2018, MSCI Emerging Markets, l’indice di riferimento per i mercati emergenti, ha accolto 234 azioni cinesi di tipo A – quotate sui listini di Shangai e Shenzen e fino ad allora rimaste sostanzialmente fuori dalla portata degli investitori stranieri.
E nel corso del 2019 ha incrementato ulteriormente il peso di questi titoli: una mossa pensata per aprire il mercato interno del Paese, fino a non molto tempo fa prerogativa per lo più degli investitori locali o dei cosiddetti “investitori qualificati”.
Investire nel mercato cinese: l’alternativa sostenibile
Ma nel mercato cinese si può investire anche in modo sostenibile. A tal riguardo, UBS, lo scorso agosto, ha lanciato l’UBS ETF (LU) MSCI China ESG Universal, che punta a replicare la performance – in termini di prezzo e rendimento – dell’indice MSCI China ESG Universal 5% Issuer Capped.
L’indice, basato a sua volta sull’MSCI China Index, comprende titoli a capitalizzazione medio-alta dei mercati azionari cinesi, con una ponderazione massima per ogni emittente limitata al 5%. E, naturalmente, ha una spiccata vocazione ESG.
La strategia dell’indice seleziona infatti le imprese che evidenziano al tempo stesso un solido profilo ESG e un trend positivo di miglioramento di tale profilo, avvalendosi di esclusioni minime dall’indice MSCI China.
Nel dettaglio, dall’indice iniziale MSCI China (che comprende azioni di tipo A, H, B, Red chips, P chips e quotazioni straniere) vengono escluse:
- società che non sono valutate secondo il rating ESG e/o nella categoria ESG “Controversie”;
- società con un punteggio pari a zero nella categoria “MSCI ESG Controversies”, che misura l’impatto negativo dell’attività di un’azienda in termini sociali, ambientali e di governance (si misura su una scala da 0 a 10, dove 0 è il punteggio peggiore);
- società direttamente o indirettamente coinvolte nello sviluppo, nella produzione o nella commercializzazione di armi illegali (in base al metodo di analisi “Controversial Weapons Screening”).
Non solo Cina: tutto l’ESG emergente
Per chi volesse investire sui mercati emergenti in chiave ESG ma ritenesse troppo elevato il livello di incertezza per prendere esposizione oggi sulla Cina, un’alternativa interessante potrebbe essere l’UBS ETF (LU) MSCI Emerging Markets Socially Responsible UCITS, che replica l’indice MSCI EM SRI, fortemente sottopesato sul Paese del Dragone rispetto all’indice di riferimento, l’MSCI Emerging Markets.
L’indice MSCI EM SRI esclude le società non in linea con specifici valori sulla base di criteri quali la religione, gli standard morali o le visioni etiche, e punta a società con rating ESG elevati rispetto agli omologhi del settore.
Il punteggio ESG viene calcolato da MSCI in base all’analisi del modo in cui ogni azienda gestisce gli aspetti relativi ad ambiente, società e governance.
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